mercoledì 13 giugno 2007

Vi racconto un canto: "Stelutis alpinis"

Ultimamente i miei post sono stati di tipo “impegnato” ed anche seriosi o austeri, post che, comunque, hanno dato adito a scontri verbali ed a polemiche.
Ora vorrei concedermi, e concedere ai miei cinque lettori, un po’ di relax e, per questo, ripropongo un mio scritto di due anni fa, creato per un altro contesto, che ritengo possa interessare altre persone che non siano addentro al canto corale.
Ritengo anche che gli amici del mio coro facciano bene a leggerlo nuovamente perché il cantare, consci di quello che si sta eseguendo, può favorirne l’interpretazione. Se poi lo leggeranno anche altri coristi, tanto meglio.


STELUTIS ALPINIS
Da pochi giorni mi trovavo presso la caserma “Chiarle” della Scuola Militare Alpina di Aosta per la seconda parte del 27° Corso AUC. Era una domenica mattina del luglio 1961 e le due compagnie di allievi si trovavano schierate nel cortile della caserma dove era celebrata la Santa Messa; all’elevazione, dopo l’usuale squillo di tromba, un gracidio, classico dei dischi a 78 giri, proveniente dall’altoparlante anticipò un improvviso “Se tu vens cassù ta’ cretis … ”, il primo verso di un canto che io, fin da bambino, avevo appreso da mia madre. Era “Stelutis alpinis” il canto che, tradizionalmente, viene eseguito durante le Messe delle truppe alpine e che mi accompagnò per il resto della “naia”. Subito dopo quella Messa ci fu chi lanciò l’idea di formare un coro, soprattutto per l’accompagnamento della liturgia. Naturalmente anch’io vi partecipai e, dopo 15 giorni il coro del 27° Corso AUC della Scuola Militare Alpina sostituì il disco ormai consunto. Da allora “Stelutis alpinis” mi ha continuato ad accompagnare anche, e soprattutto, nei miei ultimi quarant’anni come corista del “Marmolada”.
“Stelutis alpinis” fu scritto e composto da Arturo Zardini (1869-1923) nel periodo della Prima Guerra Mondiale, quando l’autore, un maestro di Pontebba, paese che allora si trovava sul confine italo-austriaco (l’abitato dall’altra parte del fiume che segnava la linea di demarcazione si chiamava Pontafel), si trovava profugo a Firenze. Forse proprio in Piazza della Signoria, leggendo sul giornale le notizie delle stragi che avvenivano al fronte, lo Zardini, commosso e rattristato da quelle vicende, trasse l’ispirazione del testo e della musica.
È quindi un canto d’autore ma che, da molti è ritenuto di origine popolare, caratteristica questa dei canti che, nel testo e nella musica, raggiungono livelli di alta poesia e che, per questo motivo, diventano patrimonio di tutto il popolo. Da subito fu fatto proprio dagli Alpini sia friulani sia di altre regioni ed ancora oggi, all’età di quasi novant’anni, rimane il canto simbolo delle truppe alpine, ma anche di tutto il popolo friulano.
Con questa composizione la poesia e la forza dell’autore si sono manifestate nella loro pienezza raggiungendo l’apice, in un commovente sincretismo e tutte le umane sofferenze si sono compendiate con toccante espressività. Non sono necessarie molte parole: ci basta pensare al brivido che ci percorre nel cantare e nell’ascoltare «..Se tu vens cassù ta' cretis...», brivido che si trasforma in emozione violenta, da serrarci la gola.
È un compendio di sofferenze, di dedizioni, di intimità, di affetti, di certezze. Non più canto, non villotta, ma preghiera profonda e, nello stesso tempo, semplice ed umana, come semplice ed umano era ed è lo spirito di Zardini.
Per i friulani “Stelutis alpinis” è sì il canto dell’Alpino morto, ma è anche considerato quasi un inno, un inno al Friuli, un inno per quella terra che ha vissuto altre sofferenze: un’altra guerra, invasioni straniere, lotte fratricide e dolorose emigrazioni.
Esaminando il testo (vedi in calce) non si può far a meno di notare il largo uso dei diminutivi, o meglio dei vezzeggiativi, caratteristica abituale nel linguaggio scritto e parlato dei friulani; “stelutis”, “crosute”, “arbute” e “bussadute” non vanno tradotti con i relativi diminutivi in italiano anche perché, oltre a ridicolizzare il testo, non hanno proprio quel significato. È una forma che si può definire affettuosa nella descrizione di oggetti ed azioni e, forse, è meglio tradurli con una perifrasi.
“Stelùte” (al plurale “stelùtis”) viene indicato nel Vocabolario Friulano (Pirona) come diminutivo, spesso come espressione affettiva, di “stele” (stella); lo stesso lemma manda a vedere “stèle alpine” che fra i sinonimi prevede anche “stele” soltanto; inoltre è citato come esempio il verso dello Zardini. La parola “crosute” è il diminutivo, sempre in forma affettiva, di “crôs”, croce, mentre “arbute” lo è di “arbe”, cioè erba, che però ha una forma più usata in “jarbe” col relativo diminutivo in “jarbute".
Infine, per concludere con i diminutivi, o come meglio indicato, con i vezzeggiativi o espressioni affettive, “bussadùte” si collega a “bussàde” (sostantivo femminile), bacio, che può anche essere tradotto con il sostantivo maschile “bùs”, in realtà poco usato.
Un altro termine interessante da esaminare è “cretis”; è il plurale di “crète” che vuol dire rupe, ma anche roccia, macigno, pendio roccioso, cresta o cima nuda di montagna. Se “crète” è un sostantivo femminile troviamo anche “crèt”, sostantivo maschile, con lo stesso significato. Sinonimo di “crète” è anche “cròde” che si avvicina al significato di croda cioè cima rocciosa appuntita tipica delle Dolomiti.
Un termine che nel verso prende un significato esteso è “duàr”. Letteralmente significa “dormo” (in questo caso si tratta di sonno eterno) e la forma infinita è “duarmî”, ma anche “durmî”.
Altri potrebbero essere i termini da esaminare ma, per non annoiare il lettore, penso che quelli sopra citati siano sufficienti ed i più interessanti soprattutto per una maggiore comprensione del testo poetico, che invito a leggere con attenzione sia in friulano e sia nelle due traduzioni.
Purtroppo, come accade per i canti che diventano famosi, c’è sempre qualcuno che vuole aggiungere qualcosa, pensando, con una discreta dose di superbia, di migliorare l’opera; nel nostro caso c’è stato chi ha pensato che il bellissimo testo di Zardini avesse bisogno di strofe in più ed ecco quindi un’aggiunta apocrifa che riporto per sola documentazione.
"Ma 'ne dì quant che la vuere / a' sara un lontan ricùard / tal to cûr, dulà ch'al jere / stele e amôr, dut sara muart. / Restarà par me che stele / che 'l miò sanc a là nudrit / par che lusi simpri biele / su l'Italie a l'infinit."
(Ma un giorno quando la guerra sarà un ricordo lontano, nel tuo cuore, dove c’erano la stella alpina e l’amore, tutto sarà morto. Per me resterà quella stella, che il mio sangue ha nutrito, perché luccichi sempre bella sull’Italia all’infinito.)
Molti credono quest’ultime strofe originali e questo si può riscontrare anche su siti internet fra i quali alcuni addirittura di Sezioni dell’A.N.A. (Associazione Nazionale Alpini).


Il testo riportato (vedi foto - cliccare sopra per ingrandirla) è quello corretto ed originale dell’autore ed anche la grafia friulana è quella esatta. La traduzione sulla terza colonna è una libera interpretazione del poeta friulano Chino Ermacora così come la scrisse nella rivista “PICCOLA PATRIA” nel 1928




Chi desiderasse ascoltare i primi 60'' di questo canto, nell'interpretazione del Coro Marmolada di Venezia, clicchi qui

5 commenti:

Toni ha detto...

Caro Sergio, lascia che un oriundo friulano (per parte di madre) ti faccia i più sinceri coplimenti per aver scelto questa canzone per il tuo blog. Quando ho ricevuto in dono la mia prima armonica a bocca, mi sono subito impegnato ad impararne la struggente melodia.Ci sono riuscito quasi subito, tanto sentivo dentro di me la poesia di quello che per me è il più bel canto friulano.

Toni ha detto...

P.S.
Mi hai fatto un bel regalo per il mio onomastico.

Anonimo ha detto...

Anche se il Coro Lavaredo si presenta con brani moderni, purtuttavia non disdegna le radici del canto popolare.
‘Stelutis alpinis’ è tuttora nel nostro repertorio.
Io lo canto sempre con commozione.
Quando lo presento, uso queste parole (non sono farina del mio sacco, da qualche parte le ho copiate, non ricordo dove):

"Fra i pochi canti d’autore, questo inno è entrato nel patrimonio della musica popolare con genuinità e freschezza, privo di quella retorica che solitamente accompagna i canti fatti a tavolino. Il pathos e la vena poetica di questo splendido motivo celebrano l’amore e l’estremo sacrificio della gente friulana. La vicenda sottolinea in modo scarno ma efficace il dramma quotidiano di un popolo in guerra: la perdita di un proprio caro.
Melodia e testo si fondono all’unisono in un momento di grande spiritualità, sì da rendere questa canzone una delle pagine più belle del canto popolare italiano."

Complimenti per la tua analisi lessicale, che però lascia trasparire attenzioni poetiche.

Saluti

Luigi

Anonimo ha detto...

Ho fatto ascoltare il minuto di canzone a mio padre che, pur essendo emiliano, la conosce a memoria avendo fatto il militare in Friuli. Era un alpino della brigata Julia.
Si è messo a cantare anche lui, ma è stonatissimo!!! :D
Comunque complimenti per la tua chiara spiegazione del canto.

Luigi ha detto...

Caro Sergio,
mi ha fatto piacere leggere quest'articolo che spiega così bene l'origine del canto, commovente e pieno d'umanità. Mi ha riportato indietro nel tempo.

Vedo che mia figlia, qui sopra, ha infierito su di me. Ma non posso sgridarla perché ha ragione. ;)

Un saluto e a presto!