giovedì 16 novembre 2006

Arrivederci, o meglio ... a rileggerci, al 4 dicembre p.v. (fuso orario permettendo)

Dopodomani inizierò il viaggio per il Brasile e, quindi, sempre che non trovi qualche occasione, il "blog" andrà in vacanza.
Al mio ritorno, pertanto, riprenderò raccontandovi le esperienze vissute, sia dal punto di vista musico-corale che sociali e di amicizia.
Il tutto, però, se il fuso orario non mi creerà problemi.

Saluti e ... a rileggerci!

Sergio

mercoledì 8 novembre 2006

La banca del domani. Monte dei Paschi di Siena e Microsoft la stanno “costruendo”.

Dall’agenzia ADNKRONOS, una notizia che mi fa anche sorridere. Il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo, in collaborazione con Microsoft, sta creando lo sportello del futuro (leggi articolo).
Infatti tutte queste smania ed offerta di tecnologia, che sembrano a solo favore del cliente, mi sanno molto di un qualcosa per aumentare i vari costi, che dobbiamo per qualsiasi operazione bancaria.
Cosa chiede, soprattutto in Italia, chi ha contatti con questi istituti, che sembra ti facciano solo piaceri e ti regalino tutto? Principalmente, la richiesta è quella di abbassare i costi, che sono fra i più alti d’Europa.
Ma da questo orecchio le banche proprio non ci sentono.
Telefonia Ip e videoconferenza cambieranno, senz’altro, il rapporto personale fra cliente e colui che sta dall’altra parte.
Se, pur trattando personalmente, i funzionari bancari, per ordini certamente superiori, sono riusciti a tirare i bidoni dei “bond” argentini e delle obbligazioni Parmalat, cosa potrà capitare al disgraziato cliente che si avvicinerà allo sportello supertecnologico?
E poi sarà tutto talmente sicuro come promesso? Prima o poi, nonostante le precauzioni, salterà fuori qualche imbroglio, tipo “phishing”, magari anche lui supertecnologico, ed allora come tanti pesci, tutti ad abboccare all’amo!

lunedì 6 novembre 2006

Il “talian”

Fra una dozzina di giorni tornerò in Brasile con il Coro Marmolada di Venezia, del quale faccio parte da lungo tempo e, nell’occasione, tornerò anche in qualche parte del Rio Grande do Sul, stato che visitai tre anni fa.
Una delle cose che mi farà piacere incontrare nuovamente sarà la parlata di quella gente, per la maggior parte di origine veneta, che ha creato il “talian”.

Ma cosa significa questo termine? È questo il nome del dialetto (o lingua?) attualmente parlata da moltissimi discendenti di coloro che lasciarono le nostre terre a fine '800 per trovare fortuna in “Mèrica”; è un dialetto a base veneta, o meglio un misto dei dialetti veneti dell’epoca, con qualche vocabolo assimilato dal portoghese e, soprattutto, con la cadenza di quest’ultima parlata: sembra quasi un veneto parlato da un genovese! Con questo “post” desidero presentare il “talian”, a chi non lo conosce, con alcuni esempi di come si scrive in questa lingua e, per questo, vi propongo la trascrizione di due brevi brani tratti da un libro (citato nelle note) che mi è stato donato dall’Associazione Culturale Italiana “Stazione 35” di Carlos Barbosa.
Ringrazio l’autrice, che mi ha autorizzato la pubblicazione, e la sig.ra Teresa Maria Manfredini, presidente della predetta associazione, che ha fatto da tramite.


Imigranti taliani in Brasile
(1)


Nell’Itália, le persone vivêa massa male. Le famêie era grande e ghera poca tera de laorar. I magnea polenta, lentilha (2) (i fea el pan) e minestron (minéstra co verdure).
Le pedo malatie l’era: pelagra (sarna (3)), cólera e malária.
Non i se cambiava le robe e i se lavea due volte al ano. Tuti dela famêia i abitea nela sala. I paioni (colchão (4)) i era fati de scartosso.
Tuti i laorea in te la colonia dei paroni, che i vivea in cità. Le done le era come schiave. Le tendea de tuta la famêia e anche le laorea in colonia. Molte de ele portea carghe de pasto (5) su la schena, come le mule, per guadagnar pochi soldi.
Alora, ghe tochea vegner al Brasile.
Nel Brasile, l’era quasi al fin dela schiavitù. A San Paolo, ghe manchea persone per laorar con le piante del café. Alora i mandea par la Itália, persone, per far propaganda de la bona vita e de le richesse che ghéra nel Brasile. Queste per sone, guadagnava soldi per ogni persona che vegnea de la Itália.
I taliani non podea pi aguentar (6) i sofrimenti che ghera nela Itália e, come nel Brasile, la vita era meravigliosa, i gá volèsto vegner quá. Lori i ga scominsiá a vener de 1875 a 1890. I vegnea del Nord de la Itália (Vêneto). I andea per qualche parte de la Mérica (Argentina, Estati Uniti, Brasile…). Il viagio durea de due a due mesi e mezo. In nave i magnea male e, se alcun restava malato, prima de morir, i butea questo malato al mare, par lu no passare la malatia ai altri. I era tratadi come le béstie.
I rivea quá nel Brasile, nel Rio de Janeiro. Lá i restea quaranta di. I era vendesti come schiavi. Alora, i se desespera, perché i volêa tere e non ghe n’era tanta.
De ottanta a cento e venti mila italiani i è vegnesti al Rio Grande del Sul.
(Palestra (7) fata par Diogo Guerra a la nostra comunitá)


La vita dei imigranti (1)

I primi imigranti arivati quá i era tuti taliani per volta de l’ano 1878. I vegnea de la Itália con la nave. I ghe metea nove mesi per arivar al Brasile. Quei che i moria nel viagio, i éra butati al mare.
Le case l’era fate con sassi o legna. Le sfese i serea con baro (8), L’era de due piani. Le persone dela famêia le fea le case. Le parede, per separar i cómodi (9) dela casa l’era fate de tacoare (10) o scarêze (11). Le teglie (12) l’era de scándole. I stea nei primi tempio con il fogo impissá ala note intiera, perché le béstie cative non arivasse arente.
I è vegnêsti d’Itália perché lá non ghenera magnar e pósti per laorar. Nei primi mesi l’Itália mandea le semense e alcun magnar. Dopo, i magnea quel che i piantea o i andea a piê a Montenegro o a caval ciapar le cose che manchea. Pi tardi, lé vegnesto el tren, la Maria-fumaça.
I nostri imigranti bestemea tant perché ghenera revoltá per rento.
La pégio dificoltá, l’era le béstie del mato (13): leoni, tigri, bisse ragne …
Quasi tute le famêie, le gavea dôdese, quindese, o anca venti e quatro fiôi.


NOTE:
1 Tratti da “Alpinada – La voia de slongar i tramonti” -di Ana Tânia Tenedini
Ed EST Ediçôes per conto di Prefeitura Municipal de Carlos Barbosa-RS (Brasile).
2 Lentichia
3 scabbia
4 materasso
5 carico di pascolo – pasto = erba
6 sopportare
7 conferenza
8 argilla
9 stanze
10 bambù, canna
11 paglia abbastanza alta che veniva anche ta- gliata per le mucche. fa un fiore bianco, come una piccola bandiera, con cui i bambini giocavano.
12 dal portoghese “telha” = tegola
13 foresta

giovedì 2 novembre 2006

"Peso el tacon del buso"

Oggi, 2 novembre, ad una settimana dalla pubblicazione su “ilVenezia” della mia lettera “Di sinistra … ma non compagno” (vedi sotto), mi è arrivata una telefonata di una signora che, senza presentarsi, ma informandosi se ero io che avevo pubblicato quella lettera, mi diceva che “ … Darsié non è di Venezia, ma di Gorizia”. Al che risposi che era pur sempre un esponente dei Ds veneziani. Nuovamente l’ignota signora mi ribadiva che non era di Venezia e che aveva sempre vissuto a Gorizia.
Cercando di capire il perché di questa telefonata e di queste affermazioni, azzardai l’ipotesi della poca conoscenza del Darsié per quanto riguardava la storia di Venezia (vedi ultimo paragrafo della mia lettera) e lei mi fece capire che quella era la ragione della telefonata che, dopo il saluto, terminò.
Tuttora non riesco a capire perché e da chi mi sia stata fatta questa telefonata: una parente, una segretaria, una “portaborse” del partito? Se voleva essere una giustificazione circa l’ignoranza sulla storia veneziana, mi sembra che abbia peggiorato la situazione perché un esponente politico non può dire a vanvera tutto quello che gli capita per la mente; prima di parlare è meglio che s’informi e s’istruisca. Risultato: “Peso el tacon del buso!
Per la cronaca, Renato Darsié, se non è un suo omonimo, abita a Mirano, a pochi chilometri da Venezia.

mercoledì 1 novembre 2006

4 novembre 1966: “acqua granda” a Venezia.

Sono già trascorsi quarant’anni! Come passa veloce il tempo.
Molti giovani, forse, non lo sapranno, ma qual giorno due città, le più ricche al mondo, artisticamente parlando, stavano soccombendo alle forze della natura: Firenze e Venezia.
Non conosco cosa stiano facendo a Firenze per ricordare quel giorno; so, invece, che il Comune di Venezia sta preparando un sito con le foto e le riprese cinematografiche di quei drammatici giorni ( http://www.albumdivenezia.it/ )
Io non ho scattato fotografie, però c’ero. Questi sono i miei ricordi.
Il 3 novembre, sabato, con il Coro Marmolada, del quale facevo e tuttora faccio parte, ero andato ad Arzignano, in provincia di Vicenza, per un concerto. Pioveva e tirava un forte vento di scirocco (raffiche anche di 80 km. orari). Faceva caldo, troppo caldo per la stagione. Tutto il pomeriggio e tutta la sera continuò a piovere, e quando il pullman ci lasciò a Piazzale Roma, circa le tre del mattino del giorno quattro, pioveva ancora. Subito la situazione mi parve problematica. Nelle “fondamente” (strade veneziane, che s’affacciano su un canale), immediatamente a ridosso del piazzale, c’era già acqua, nonostante la zona fosse, e lo è ancora oggi, abbastanza elevata. Per prendere il vaporetto erano già state approntate le passerelle e notai il pontile d’approdo molto alto. Percepii subito che l’acqua aveva già raggiunto un notevole livello, uno dei più alti negli ultimi anni. Gli amici che dovevano procedere a piedi si trovarono subito in difficoltà e, lo seppi dopo, affrontarono le calli allagate per arrivare alle loro abitazioni. Ma anche coloro che, abitavano in altre zone di Venezia, scendendo alle varie fermate, si trovarono subito bloccati e dovettero camminare con l’acqua che, in certi punti, già arrivava alle ginocchia.
Io, allora, abitavo al Lido e quindi dovetti restare in vaporetto percorrendo tutto il Canal Grande ed il Bacino di San Marco. Non si vedevano pezzi asciutti ed in molte zone mancava già l’illuminazione pubblica. Ogni tanto si notava qualche chiazza oleosa: era la nafta, combustibile usato allora, uscita dai serbatoi che l’acqua, ormai, superava. Si capiva che la situazione era drammatica anche perché, secondo l’orario della marea astronomica, l’acqua doveva aver già iniziato ad uscire e, quindi, il livello doveva diminuire.
Lasciando il Canal Grande, ed uscendo nel Bacino di San Marco, il vaporetto fu investito da forti raffiche di vento ed iniziò ad ondeggiare.
La Piazza San Marco era scomparsa.
Quei pochi che salivano in vaporetto portavano notizie sconvolgenti. Ma si sperava nella bassa marea che avrebbe riportato la città alla normalità.
Io ero abbastanza tranquillo perché il Lido è molto più alto e, quindi, sarei stato all’asciutto. Verso le quattro del mattino arrivai a destinazione e scendendo dal vaporetto trovai solo qualche centimetro d’acqua, che aveva invaso il Piazzale S.Maria Elisabetta. Gli autobus avevano spostato la fermata agli inizi del Gran Viale, non ancora allagato, cosa che invece accadde qualche ora dopo.
Finalmente arrivai alla fermata vicino casa e dovetti affrontare un fortissimo vento che mi faceva camminare con fatica. Il mare rumoreggiava, ma non persi tempo a guardare ed entrai in casa.
Mia figlia non aveva ancora tre mesi e dormiva tranquilla; mia moglie, essendo rimasta tutto il giorno in casa, non si era resa conto di quanto fosse grave la situazione. Vista l’ora oltremodo tarda, non ci furono grandi colloqui e mi addormentai subito, nonostante il continuo rumoreggiare del mare.
E venne l’ora del risveglio; erano circa le dieci del mattino. Accesi la luce, ma tutto restò buio perché mancava l’elettricità. Andai alla finestra, alzai la tapparella e, da subito,faticai a vedere il palazzo di fronte: gli spruzzi d’acqua, trasportati dal vento, rendevano il vetro della finestra non trasparente.
Il riscaldamento non funzionava, ma non c’era freddo. La preoccupazione di mia moglie e mia era per la piccola Laura, perché ascoltando la radio a batterie, le notizie, pur nella loro frammentarietà, erano allarmanti. Affermavano che l’acqua, nelle sei ore in cui doveva scendere, era invece aumentata per la forza del vento ed ora riprendeva a salire con maggiore velocità e se i “murazzi” non avessero tenuto, il mare sarebbe entrato in laguna! Noi abitavamo proprio sul lungomare dove iniziavano i “murazzi”, barriera artificiale di grossi massi di pietra d’Istria, posti a protezione della laguna ancora dalla Serenissima nel XVIII secolo.
Una volta allattata ed addormentata la piccola, mia moglie ed io decidemmo di andare a guardare cosa succedeva. Scesi nell’androne del condominio trovammo la porta sbarrata da rinforz,i che impedivano si aprisse per la violenza del vento e, quindi, uscimmo per il retro.
Il lungomare era battuto dal vento. Arrivammo all’inizio di quella che doveva essere la piccola spiaggia dello stabilimento “Sorriso”, proprio di fronte a casa nostra, ma non vedemmo spiaggia, le capanne erano sfasciate e perfino i camerini in muratura non esistevano più. La forza del mare aveva distrutto tutto. Solo la struttura su colonne in cemento ancora resisteva. Ed i murazzi? Tenendoci l’un l’altra, per proseguire contro il vento, arrivammo a percorrere il centinaio di metri che ci separava da questa diga. Le onde, altissime, che s’infrangevano sui massi sottostanti, superavano in parte la barriera e si riversavano sui terreni sottostanti, allora coltivati ad orto. Una breccia sembrava già aperta e da lì l’acqua entrava più facilmente. Ogni tanto qualche onda più forte si riversava completamente dall’altra parte.
Eravamo soli sui murazzi, ed allora capimmo che, forse, sarebbe stato meglio rientrare.
Restammo a casa fino alle sedici, quando uscimmo nuovamente per vedere se si poteva andare a Venezia. Il piazzale, sul quale la mattina c’erano pochi centimetri d’acqua, ora era completamente allagato. Ormai da circa ventiquattro ore l’acqua continuava a crescere senza mai poter defluire. I motoscafi, natanti più piccoli che riuscivano ad approdare all’interno di un vicino canale, viaggiavano senza alcun orario e non era assicurato il ritorno. Non restava che ritornare a casa.













Il vento continuava ad infuriare, quando, all’improvviso, ci fu un silenzio quasi irreale ed anche la luce, ormai eravamo all’imbrunire, apparve strana. Il tutto durò poco. Dopo di questo percepimmo subito che il vento aveva cambiato direzione: ora proveniva da terra ed era il vento detto “di garbin”, il vento della salvezza!
Subito l’acqua cominciò a defluire e fu allora che saltarono fuori le magagne: gente senza casa con le masserizie in calle, il segno della nafta su tutti i muri, i negozi con la merce rovinata dall’acqua, corrente elettrica che funzionava solo a tratti, tanto che, di notte, gran parte della città restava al buio.
I giorni successivi, girare per Venezia era veramente deprimente.