“Anniversario della Vittoria” è stato chiamato per molti anni -ma qualcuno usa, ancor oggi, questa definizione- il 4 novembre, data che ricorda la fine della prima guerra mondiale.
Quest’anno ricorre il 90° anniversario, e non tutti sono d’accordo, come il sottoscritto, che si debba ricordare una vittoria; è invece una data che deve ricordare altre cose. Infatti, se vi furono dei vinti non è detto che vi furono anche dei vincitori: una vittoria non l’hanno considerata i centomila “presenti” a Redipuglia e neppure tutti coloro, centinaia di migliaia, che rimasero sui campi di battaglia di ogni fronte. Ma neppure fu una vittoria per tutti coloro che dalla guerra non ebbero che lutti, miseria ed anche fame. E non si può considerare “vittoria” anche per tutte le conseguenze politiche di quella guerra che portarono alla dittatura.
E c’è anche chi considera i morti in battaglia degli eroi, uomini che si sacrificarono per un ideale. Ma siamo sicuri che chi moriva era conscio di sacrificarsi per un ideale? Cosa ne potevano sapere di certi “ideali”, sempre che si possa usare questo appellativo, i contadini, gli operai ed i cittadini in genere che venivano chiamati alla leva e mandati in prima linea? Cosa poteva fregargliene, per esempio, ad un contadino siciliano, di Trento e Trieste che, magari, non sapeva neppure dove si trovassero le due città?
Si sa, in tutte le guerre, chi comanda, classe politica e dirigente –non solo militare- è l’unica che, forse, ci guadagna qualcosa proprio per merito di questi “eroi”, che poi eroi non sono in quanto il loro sacrificio non è stato, almeno nella maggior parte dei casi, conscio. I soldati che andavano all’attacco con la baionetta uscendo dalle trincee erano, di solito, “pompati” perché non era raro il caso di condizionamenti fisici (alcool) e psicologici. Se non ubbidivano al comando venivano considerati vigliacchi e disertori con tutte le conseguenze che ne scaturivano. Insomma, non erano eroi e, soprattutto, non volevano esserlo. È un mio convincimento che gli eroi non siano mai esistiti se non in casi veramente rari ed estremi. Anche quelli che si sacrificarono e che consideriamo consci, siamo sicuri che non vi siano stati dei precedenti condizionamenti dovuti, per esempio, all’educazione ricevuta? Su questi miei convincimenti, espressi proprio quest’anno, in occasione di due interventi pubblici nei quali trattavo sui canti cosiddetti “di guerra”, alcuni non si sono trovati d’accordo. Con questo non voglio assolutamente sostenere che chi è morto per la Patria non abbia compiuto un sacrificio; è chiaro che tutti sono stati dei sacrificati e, anzi, sono stati “carne da macello” mandati avanti in una guerra che certamente loro non avevano voluto.
E proprio prendendo spunto dai cosiddetti “canti di guerra” sostengo che chi si trovava in prima linea, chi era in trincea, immerso nel fango o nella neve, chi si trovava sotto la mira del cecchino o fra gli scoppi delle granate e quant’altro, non aveva lo spirito del “guerriero” e dell’eroe, ma era solo un uomo che aveva un unico desiderio: che la guerra finisse e che potesse ritornare a casa ed ai suoi affetti.
“ …Maledeta la sia questa guera / Che mi ha dato sì tanto dolor, / Il tuo sangue hai donato a la tera / Hai distrutto la tua gioventù. …” cantavano i prigionieri trentini, inquadrati nell’esercito austriaco e mandati sul fronte orientale, nel canto intitolato “Sui monti Scarpazi”.
“… l’è lutto degli alpini che van la guerra” un verso di “Sul ponte di Bassano” (canto della prima guerra mondiale, non quello, forse più famoso, del “bacin d’amore”, e dal quale è derivato “Sul ponte di Perati” della seconda guerra mondiale), verso nel quale l’azione “van la guerra” indica come, gli alpini, ma con questo termine includo tutte le altre armi, non facevano la guerra, non volevano farla, ma andavano perché erano mandati. .
Nostalgia troviamo in “Ta pum” con “Ho lasciato la mamma mia… ” e poi, inframmezzato dal continuo martellamento dei mortai “ta pum”, appunto, il racconto conciso di quella che era la vita al fronte, sempre in prima linea, con il cecchino pronto a sparare.
I motivi che ricorrono in questi canti sono sempre amore, ricordo, pace, pietà ed anche allegria. Quindi NON guerra.
E concludo richiamando un articolo di Gualtiero Bertelli intitolato «Canzoni al fronte - E una madre triestina gridò: "Se la guerra non fusse mai sta”» apparso su Il Gazzettino di Venezia del 30 ottobre.
2 commenti:
Mio padre era uno dei " ragassi del '99". Era un fante, che è stato ferito sul Montello, a pochi metri dal luogo dove è caduto col suo aereo Francesco Baracca, suo omonimo.Non l'ho mai sentito dire di aver combattuto per la Patria. Una Patria che si è ricordata di Lui più di mezzo secolo dopo, per assegnargli una pensione annua di "ben cinquemila lire" e conferirgli la cittadinanza onoraria di Vittorio Veneto. Purtoppo è morto pochi giorni prima
di ricevere questo tardivo e. . . avaro riconoscimento.
Canto i mille canti degli alpini, solo perché faccio parte del coro Marmolada, ma quando passo su uno dei ponti sul Piave, penso ai "primi fanti, il 24 maggio". Mio padre era tra loro.
@toni: la guerra non è mai voluta dal popolo, ma dalle classi dirigenti; quindi, nessuno era desideroso di andare a combattere per la Patria, ma vi doveva andare.
Posta un commento