Sono parecchi anni che, qui a Venezia, se ne parla.
Questa volta è capitato a me, o meglio, è capitato al negozio di generi alimentari presso casa mia: a luglio cesserà l’attività.
Ripeto: sono anni che questi fatti si ripetono; i politici, ad ogni elezione, si propongono come innovatori, ma, ripetutamente, nessuno fa qualcosa.
La chiusura dei negozi di questo tipo in centro storico sono il fenomeno che segue un altro fenomeno: l’impoverimento demografico.
È il classico esempio del cane che si mangia la coda: diminuisce la popolazione (vedremo perché), chiudono i negozi e quelli che rimangono aumentano i prezzi per ottenere gli stessi guadagni con meno clienti; a questo punto molti clienti usano il negozio sotto casa solo per emergenze rivolgendosi, invece, ai supermercati, pochi ed a prezzi maggiori rispetti agli stessi in terraferma, aumentando ancor più le difficoltà dei commercianti.
Altra conseguenza: molte famiglie, vuoi per i prezzi dei negozi, ma anche e soprattutto per gli affitti, preferiscono prendere la strada di Mestre e dintorni. Quindi ulteriore diminuzione d’abitanti e, perciò, riprende il giro, con l’aggiunta che gli appartamenti rimasti liberi non sono più affittati a residenti, ma a turisti, nelle forme più diverse ed il più delle volte in “nero”, oppure a studenti, sempre senza alcun contratto, per non parlare, in quest’ultimo caso, delle pessime condizioni degli immobili.
Insomma, a Venezia, si fermano solo coloro che possiedono l’appartamento e, per lo più sono (siamo) persone di una certa età.
C’è sempre qualche assessore che propone rimedi, ma, ve lo assicuro, poi non fanno più niente. Propongono e basta!
Quale sarà il risultato finale? Ora siamo in 60.000 ed ogni anno diminuiamo. Non mancherà molta che a Venezia ci saranno solo case per turisti e di sera chiuderanno i cancelli, come una Disneyland!
Sarà una Veniceland”!
Di tutto un po'. In questo "blog" troverete "sfoghi" e pensieri, lettere inviate ai giornali e, forse, non pubblicate. Parlerò di Venezia, la mia Città, di quanto c'è di buono e di meno buono in essa, ma non mancheranno neppure argomenti di politica e di quello che capita nel mondo. Insomma ... un po' di tutto!!!
mercoledì 30 maggio 2007
domenica 27 maggio 2007
Festività infrasettimanali abolite.
Oggi, a Venezia, si è svolta la 33° edizione della Vogalonga, manifestazione remiera non competitiva il cui itinerario si snoda, per circa 30 km., da San Marco a Sant'Elena, alle Vignole, a Sant'Erasmo, a Burano, a Murano, fino ad arrivare ancora a Venezia.
Quest’anno il numero delle barche è stato di 1550 e non solo veneziane!
Ma la Vogalonga è solo lo spunto per un altro argomento, quello delle “festività cancellate”. Infatti, fino a circa trent’anni fa questa manifestazione si effettuava non di domenica, ma di giovedì, il giovedì dell’Ascensione, giorno festivo.
Questa festa, religiosa innanzitutto, fu abolita assieme ad altre; in tutto 5 giorni: 6 gennaio (Epifania), 19 marzo (S.Giuseppe), Ascensione (40 giorni dopo la Pasqua), 2 giugno (festa della Repubblica), 4 novembre (festa della Forze Armate e anniversario della vittoria della “grande guerra”).
Quale il motivo di questo “taglio”? Passato il periodo del “miracolo economico” (anni ’60), nel quale l’Italia concluse la ripresa e la ricostruzione dopo la guerra, qualcuno, con l’autorizzazione dei sindacati, pensò che in Italia c’erano troppe festività infrasettimanali che favorivano i cosiddetti “ponti”.
L’Italia doveva lavorare di più e, quindi, meno feste e meno “ponti”!
Furono risparmiate alcune date: 25 aprile, 1 maggio, 15 agosto e 8 dicembre. Le prime due per ovvi motivi politici e sindacali, il 15 agosto perché tanto in quel periodo tutte le industrie sarebbero state ugualmente chiuse e l’8 dicembre perché, forse, toccava interessi economici degli operatori turistici invernali ed avrebbe rovinato l’apertura della stagione sciistica, soprattutto ai milanesi che il 7 dicembre sono in festa per il Patrono.
Poi iniziarono le “revisioni”; credo l’anno dopo, fu ripristinata la festività dell’Epifania, non per le proteste dei bambini, ma per quelli degli operatori turistici invernali che, in questo modo, si vedevano ridotte le vacanze natalizie e la stazioni sciistiche si svuotavano qualche giorno prima. Poi aspettammo qualche anno, ed il Presidente Ciampi chiese il ripristino della Festa della Repubblica il 2 giugno.
Così le festività eliminate si ridussero a tre.
Abbiamo veramente salvato l’economia italiana con questi tre giorni in più di lavoro?
Per curiosità, andate a vedere quali e quante sono le festività infrasettimanali negli altri paesi europei!
Quest’anno il numero delle barche è stato di 1550 e non solo veneziane!
Ma la Vogalonga è solo lo spunto per un altro argomento, quello delle “festività cancellate”. Infatti, fino a circa trent’anni fa questa manifestazione si effettuava non di domenica, ma di giovedì, il giovedì dell’Ascensione, giorno festivo.
Questa festa, religiosa innanzitutto, fu abolita assieme ad altre; in tutto 5 giorni: 6 gennaio (Epifania), 19 marzo (S.Giuseppe), Ascensione (40 giorni dopo la Pasqua), 2 giugno (festa della Repubblica), 4 novembre (festa della Forze Armate e anniversario della vittoria della “grande guerra”).
Quale il motivo di questo “taglio”? Passato il periodo del “miracolo economico” (anni ’60), nel quale l’Italia concluse la ripresa e la ricostruzione dopo la guerra, qualcuno, con l’autorizzazione dei sindacati, pensò che in Italia c’erano troppe festività infrasettimanali che favorivano i cosiddetti “ponti”.
L’Italia doveva lavorare di più e, quindi, meno feste e meno “ponti”!
Furono risparmiate alcune date: 25 aprile, 1 maggio, 15 agosto e 8 dicembre. Le prime due per ovvi motivi politici e sindacali, il 15 agosto perché tanto in quel periodo tutte le industrie sarebbero state ugualmente chiuse e l’8 dicembre perché, forse, toccava interessi economici degli operatori turistici invernali ed avrebbe rovinato l’apertura della stagione sciistica, soprattutto ai milanesi che il 7 dicembre sono in festa per il Patrono.
Poi iniziarono le “revisioni”; credo l’anno dopo, fu ripristinata la festività dell’Epifania, non per le proteste dei bambini, ma per quelli degli operatori turistici invernali che, in questo modo, si vedevano ridotte le vacanze natalizie e la stazioni sciistiche si svuotavano qualche giorno prima. Poi aspettammo qualche anno, ed il Presidente Ciampi chiese il ripristino della Festa della Repubblica il 2 giugno.
Così le festività eliminate si ridussero a tre.
Abbiamo veramente salvato l’economia italiana con questi tre giorni in più di lavoro?
Per curiosità, andate a vedere quali e quante sono le festività infrasettimanali negli altri paesi europei!
sabato 26 maggio 2007
Conclusa felicemente l’annosa questione della cava di gesso a Raveo
Oggi, nell’aprire, come prima cosa, la posta elettronica, ho trovato una mail che mi ha reso particolarmente felice.
Per questo motivo ho deciso di lasciar perdere, momentaneamente, altre cose, in particolare la lettura di altri blog interessanti e la risposta al commento dell’anonimo “razzista-leghista” nel blog sottostante, per esternare, ai miei lettori, il fatto nuovo, annunciatomi proprio oggi con una mail da Raveo.
Il pericolo dell’apertura di una cava di gesso nel piccolo paese carnico sembrerebbe ormai cosa passata!
Infatti il Presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Riccardo Illy, ha firmato (e quindi il Bur ha pubblicato) il decreto di approvazione dell'ampliamento del Parco delle colline carniche che passerà da 1000 a 2000 ettari di estensione.
Da tutto ciò deriva che la cava di gesso a Raveo non potrà più essere realizzata perché l'area in cui tale insediamento estrattivo avrebbe dovuto essere localizzato è stata fatta rientrare nei terreni soggetti all'ampliamento del parco e, quindi, da zona estrattiva quegli ettari ora ridiventeranno area boschiva e "ufficialmente e legittimamente, nessuna autorizzazione per l'apertura di una cava potrà essere rilasciata".
Il merito di questa “vittoria” è da attribuire a tutti gli abitanti di Raveo, che tenacemente si sono battuti in questi anni, ed all’Amministrazione Comunale guidata dal Sindaco Daniele Ariis.
A tutti loro le mie felicitazioni e l’augurio di riprendere, con maggiore serenità, tutte ciò che necessita per un nuovo sviluppo del paese.
Vedi:
Notizie più dettagliate
Testo originale della delibera
Allegato alla delibera
Per questo motivo ho deciso di lasciar perdere, momentaneamente, altre cose, in particolare la lettura di altri blog interessanti e la risposta al commento dell’anonimo “razzista-leghista” nel blog sottostante, per esternare, ai miei lettori, il fatto nuovo, annunciatomi proprio oggi con una mail da Raveo.
Il pericolo dell’apertura di una cava di gesso nel piccolo paese carnico sembrerebbe ormai cosa passata!
Infatti il Presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Riccardo Illy, ha firmato (e quindi il Bur ha pubblicato) il decreto di approvazione dell'ampliamento del Parco delle colline carniche che passerà da 1000 a 2000 ettari di estensione.
Da tutto ciò deriva che la cava di gesso a Raveo non potrà più essere realizzata perché l'area in cui tale insediamento estrattivo avrebbe dovuto essere localizzato è stata fatta rientrare nei terreni soggetti all'ampliamento del parco e, quindi, da zona estrattiva quegli ettari ora ridiventeranno area boschiva e "ufficialmente e legittimamente, nessuna autorizzazione per l'apertura di una cava potrà essere rilasciata".
Il merito di questa “vittoria” è da attribuire a tutti gli abitanti di Raveo, che tenacemente si sono battuti in questi anni, ed all’Amministrazione Comunale guidata dal Sindaco Daniele Ariis.
A tutti loro le mie felicitazioni e l’augurio di riprendere, con maggiore serenità, tutte ciò che necessita per un nuovo sviluppo del paese.
Vedi:
Notizie più dettagliate
Testo originale della delibera
Allegato alla delibera
giovedì 24 maggio 2007
Il “video della BBC”, Michele Santoro & C.
Non allarmatevi, non scrivo niente di mio su questo tema, ma vi rimando ai due “post” della “blogger” Romina, estremamente chiara nell’esporre tutte le argomentazioni, “post” che condivido al 100%.
http://intersezioni.awardspace.com/2007/05/24/mistificazioni-e-approssimazioni/
http://intersezioni.awardspace.com/2007/05/22/nessun-timore/
mercoledì 23 maggio 2007
martedì 22 maggio 2007
Le “favelas” brasiliane … viste dall’Unità
Vi propongo, in questo post, un articolo tratto da “Unità on line” del 21 maggio. L’autore è Roberto Monteforte ed il titolo è: “Nella favela dimenticata da Ratzinger”.
---
«Peccato che Papa Benedetto XVI non sia venuto da noi. Avrebbe visto cosa sia in realtà il Brasile». Un commento secco. Di quelli che marcano la distanza tra mondi che non comunicano. Parla Luiz Texeira, sulla cinquantina, di origine portoghese, viso incorniciato da una barba sale pepe. Cattolico, è uno dei fondatori del Goti (Grupo de Organizaçao dos Trabalhadores Indipendentes) che dal 1986 è impegnato nella favela di Pedreira, periferia sud di San Paolo. Il Papa non è venuto? Non ne fa una malattia, Luiz. Lui a Pedreira è di casa. Questa è terra dura. Terra di violenza e disperazione.
I senza diritto. La favela si inerpica lungo la collina e si estende, senza fine. Una via «principale» e poi un dedalo infinito, tortuoso e inestricabile di vicoli stretti. Case a migliaia, tirate su mattone su mattone. Zona «off limit» per tutti. Questa è territorio del «Primero Comando Capital», la sigla criminale che ha tenuto in scacco l’intera città di San Paolo. Lì non si entra. Ma i volontari e i missionari sono rispettati. «E dire che sulle cartine geografiche questa è una valle verde...» commenta Ademar Degasperi, anche lui uno dei volontari. È proprio qui che vive «il popolo in più», gli «impoveriti», i senza diritto. Sono ben quattro milioni i «nordestini», che espulsi dalle campagne del Nord est sono approdati a San Paolo. Sono gli abitanti delle favelas. Qui non ci sono vie o indirizzi. «Favela vuole dire fai da solo» spiega il missionario domenicano padre Mariano Foralosso. «Eppure - aggiunge - vi sono gocce di speranza. Sono gocce nell’oceano, ma l’oceano non è fatto di gocce?». Cita le parole di padre Giorgio Callegari, anche lui domenicano che a questa gente ha dedicato la vita che per questo, alla fine degli anni ‘60, è stato incarcerato, torturato e esiliato durante il regime militare. Alla fine, tornato clandestinamente proprio nelle favelas, ha fondato a Peruibe, vicino al mare, la «Colonia Venezia» e a Pedreira il «centro Santa Terezinha» e la «Scuola Esperanza». È scomparso nel 2003, ma la sua attività continua grazie ai volontari del Cepe (Centro Ecuménico de Publicações e Estudios Frei Tito de Alencar Lima) e del Goti, a padre Mariano e al sostegno, anche dall’Italia, di tanti amici. Sono strutture che oggi accolgono complessivamente 1.600 «meninos de rua» e che hanno il loro appoggio logistico in «Colonia Venezia» dove i ragazzi che vengono da questi inferni, fanno lì a turno il campo estivo di una settimana.
«È un impegno che nasce dalla presa di coscienza maturata nel lavoro di approfondimento della comunità ecclesiale di base» ricorda un altro volontario, Roberto De Costa. «Era un gruppo di giovani della comunità - aggiunge Luiz - tutti lavoratori in diversi settori, che si sono organizzati per fare un cammino insieme e per dare formazione sindacale e politica ai lavoratori. Aveva l’obiettivo di organizzare anche le lotte sociali sui problemi della favela». E le lotte ci sono state. È un racconto collettivo quello di Carlos Roberto De Costa, di Luiz Teixeira, di Ademar Degasperi e Leda De Alcontera, sua moglie. Indicano la collina che sovrasta questo sconfinato mare color mattone.
«Solo 22 anni fa era una cava, una palude. Ora è la nostra collina. È il risultato dei detriti delle costruzioni accumulati nel tempo. Si è lottato. Volevano scaricare lì i rifiuti tossici dell’ospedale. Sotto ci sono le falde acquifere che alimentano l’acquedotto di san Paolo. Si è lottato per la salute come per ogni cosa, per la luce, per l’autobus, per la strada principale...». E la Chiesa. «Un tempo ci diceva che era peccato scioperare, poi che lo era non scioperare. Ora ci dice di restare in sacrestia» commenta critico Carlos Roberto. Ma loro hanno i loro riferimenti.
Alla favela ci guida padre Mariano Foralosso, da 20 anni in Brasile. È stato amico e confratello di «Frei Giorgio», ne ha raccolto l’eredità. Il viaggio è lungo. In metropolitana attraversiamo la megalopoli di San Paolo: linea Azzurra, destinazione «Jabaquara», il capolinea. Poi, altri chilometri macinati su di un vecchio pulmino Wolkswagen. Il paesaggio si trasforma. Sempre più la periferia si fa favela. Scompaiono lampioni e marciapiedi. Solo mattoni. Raggiungiamo il «Centro Terenzinha». Si supera un cancello e hai di fronte una realtà sorprendente. Troviamo biblioteche, aule curate, cucina e refettorio e una sessantina di bambini sorridenti sottratti alla strada e alle sue leggi violente. Lavorano a gruppi, in base all’età. C’è chi «ricama» stoffe, chi dipinge sotto la guida di alcune assistenti. Il clima è allegro, ma di impegno. I più grandi realizzano cuscini dipinti a mano, sciarpe di lana e altri prodotti di artigianato. «Li aiutiamo ad imparare un mestiere, ma ancora più a maturare un’autostima di sé, a mostrare che è possibile realizzare qualcosa, a dare loro speranza» spiega Leda, che fa gli onori di casa. È lei ad occuparsi del Progetto adozioni a distanza, la fonte principale di finanziamento per l’attività dei nove «centri» che fanno riferimento al Cepe e al Goti. Sono circa ottocento le «adozioni» a distanza. Per gli «ospiti», tutti in età scolare, divisi in gruppi, un pasto assicurato, sostegno scolastico e un progetto educativo preciso: aiutarli a diventare cittadini. «Vivere qui significa essere esclusi da tutto. È quasi impossibile trovare lavoro per chi è di Pedreira». C’è anche un piccolo spiazzo in cemento dove i bambini giocano a pallone. «È il loro Maracanà» afferma scherzosa Leda.
A pochi metri vi è la «scuola Esperanza»: è per i più grandi. Da poco inaugurata è ancora intonacata di fresco. Si avviano i giovani al lavoro. Gli si insegna un mestiere: fornaio, pasticciere, elettricista, lavorare al telaio i tessuti e la lana, realizzare attività di artigianato. La vita può cambiare. I ragazzi hanno ambizioni precise: ingegnere chimico, programmatore di computer, elettricista. Al primo posto per tutti «poter aiutare le famiglie». «Quel centro - precisa padre Mariano - è intitolato a Frei Tito De Alencar Lima, frate domenicano come padre Giorgio, ha dedicato la sua vita alla causa dei poveri e per questo alla fine degli anni ‘60 venne arrestato, torturato ed esiliato dal regime dei generali. È morto martire». Anche qui Cepe e Goti lavorano in stretta collaborazione. È un modo concreto per combattere l’emarginazione e l’esclusione di un popolo. «Come possiamo predicare il Vangelo a gente che muore di fame? I cui diritti non solo umani, ma addirittura animali ed elementari, come quelli di potersi coprire, sfamare, riprodurre in modo degno, sono negati? È il popolo negato. È il popolo in più» commenta il padre domenicano.
Non lo preoccupa la serrata concorrenza delle «sette» neo pentecostali. Se la Chiesa di Roma è lontana, qui vi è una Chiesa che si compromette. La Teologia della Liberazione è una pratica concreta e radicata, di decine di migliaia di comunità ecclesiali di base impegnate a favore dell’uomo. Lo si è visto anche alla favela di Pereida. Un mondo, quella della povertà, che Papa Raztinger, non ha neanche sfiorato.
---
Il “pezzo” in questione parla di alcune realtà e persone che conosco in quanto, proprio qualche mese fa, sono andato da quelle parti e mi sono recato anche in una di queste strutture, la Colonia Venezia di Peruibe, citata anche nell’articolo.
Di questa mia esperienza ho scritto anche in questo blog
Quello che mi ha colpito in questo articolo è stata la supponenza dell’autore. Infatti, fin dal titolo, si capisce come lo scopo non sia quello di raccontare ai lettori le realtà visitate a San Paolo e nelle sue vicinanze, realtà shockanti, soprattutto per chi le affronta la prima volta. Lo scopo è, invece, quello di un ulteriore attacco al Papa e, ovviamente, all’istituzione che rappresenta, dimenticandosi che chi opera in Brasile, in quelle realtà, fa parte proprio di questa istituzione. Chi alcuni decenni fa è stato arrestato, torturato ed è anche morto, faceva parte di questa istituzione!
«Peccato che Papa Benedetto XVI non sia venuto da noi. Avrebbe visto cosa sia in realtà il Brasile». Con questa frase di un sindacalista cattolico, frase che esprime un desiderio più che legittimo da parte di chi dedica la sua vita agli altri, il giornalista deduce ben altre cose :” … Un commento secco. Di quelli che marcano la distanza tra mondi che non comunicano. … “.
Ma chi è Monteforte che si arroga il diritto di giudicare l’itinerario di Benedetto XVI in Brasile?
Ad una frase di Padre Mariano «Come possiamo predicare il Vangelo a gente che muore di fame? I cui diritti non solo umani, ma addirittura animali ed elementari, come quelli di potersi coprire, sfamare, riprodurre in modo degno, sono negati? È il popolo negato. È il popolo in più» è sempre il Monteforte che ribadisce “ … Se la Chiesa di Roma è lontana, qui vi è una Chiesa che si compromette. …“.
Ma chi commenta in questo modo poi sarà di quelli senz’altro contrari all’otto per mille, il cui ricavato è destinato anche a queste necessità.
E tutte le associazioni che in Italia si danno da fare per sostenere queste realtà, pur essendo associazioni laiche, non aderiscono certamente ad alcun partito politico e sono, invece, vicine a quella chiesa cattolica romana tanto vituperata!
---
«Peccato che Papa Benedetto XVI non sia venuto da noi. Avrebbe visto cosa sia in realtà il Brasile». Un commento secco. Di quelli che marcano la distanza tra mondi che non comunicano. Parla Luiz Texeira, sulla cinquantina, di origine portoghese, viso incorniciato da una barba sale pepe. Cattolico, è uno dei fondatori del Goti (Grupo de Organizaçao dos Trabalhadores Indipendentes) che dal 1986 è impegnato nella favela di Pedreira, periferia sud di San Paolo. Il Papa non è venuto? Non ne fa una malattia, Luiz. Lui a Pedreira è di casa. Questa è terra dura. Terra di violenza e disperazione.
I senza diritto. La favela si inerpica lungo la collina e si estende, senza fine. Una via «principale» e poi un dedalo infinito, tortuoso e inestricabile di vicoli stretti. Case a migliaia, tirate su mattone su mattone. Zona «off limit» per tutti. Questa è territorio del «Primero Comando Capital», la sigla criminale che ha tenuto in scacco l’intera città di San Paolo. Lì non si entra. Ma i volontari e i missionari sono rispettati. «E dire che sulle cartine geografiche questa è una valle verde...» commenta Ademar Degasperi, anche lui uno dei volontari. È proprio qui che vive «il popolo in più», gli «impoveriti», i senza diritto. Sono ben quattro milioni i «nordestini», che espulsi dalle campagne del Nord est sono approdati a San Paolo. Sono gli abitanti delle favelas. Qui non ci sono vie o indirizzi. «Favela vuole dire fai da solo» spiega il missionario domenicano padre Mariano Foralosso. «Eppure - aggiunge - vi sono gocce di speranza. Sono gocce nell’oceano, ma l’oceano non è fatto di gocce?». Cita le parole di padre Giorgio Callegari, anche lui domenicano che a questa gente ha dedicato la vita che per questo, alla fine degli anni ‘60, è stato incarcerato, torturato e esiliato durante il regime militare. Alla fine, tornato clandestinamente proprio nelle favelas, ha fondato a Peruibe, vicino al mare, la «Colonia Venezia» e a Pedreira il «centro Santa Terezinha» e la «Scuola Esperanza». È scomparso nel 2003, ma la sua attività continua grazie ai volontari del Cepe (Centro Ecuménico de Publicações e Estudios Frei Tito de Alencar Lima) e del Goti, a padre Mariano e al sostegno, anche dall’Italia, di tanti amici. Sono strutture che oggi accolgono complessivamente 1.600 «meninos de rua» e che hanno il loro appoggio logistico in «Colonia Venezia» dove i ragazzi che vengono da questi inferni, fanno lì a turno il campo estivo di una settimana.
«È un impegno che nasce dalla presa di coscienza maturata nel lavoro di approfondimento della comunità ecclesiale di base» ricorda un altro volontario, Roberto De Costa. «Era un gruppo di giovani della comunità - aggiunge Luiz - tutti lavoratori in diversi settori, che si sono organizzati per fare un cammino insieme e per dare formazione sindacale e politica ai lavoratori. Aveva l’obiettivo di organizzare anche le lotte sociali sui problemi della favela». E le lotte ci sono state. È un racconto collettivo quello di Carlos Roberto De Costa, di Luiz Teixeira, di Ademar Degasperi e Leda De Alcontera, sua moglie. Indicano la collina che sovrasta questo sconfinato mare color mattone.
«Solo 22 anni fa era una cava, una palude. Ora è la nostra collina. È il risultato dei detriti delle costruzioni accumulati nel tempo. Si è lottato. Volevano scaricare lì i rifiuti tossici dell’ospedale. Sotto ci sono le falde acquifere che alimentano l’acquedotto di san Paolo. Si è lottato per la salute come per ogni cosa, per la luce, per l’autobus, per la strada principale...». E la Chiesa. «Un tempo ci diceva che era peccato scioperare, poi che lo era non scioperare. Ora ci dice di restare in sacrestia» commenta critico Carlos Roberto. Ma loro hanno i loro riferimenti.
Alla favela ci guida padre Mariano Foralosso, da 20 anni in Brasile. È stato amico e confratello di «Frei Giorgio», ne ha raccolto l’eredità. Il viaggio è lungo. In metropolitana attraversiamo la megalopoli di San Paolo: linea Azzurra, destinazione «Jabaquara», il capolinea. Poi, altri chilometri macinati su di un vecchio pulmino Wolkswagen. Il paesaggio si trasforma. Sempre più la periferia si fa favela. Scompaiono lampioni e marciapiedi. Solo mattoni. Raggiungiamo il «Centro Terenzinha». Si supera un cancello e hai di fronte una realtà sorprendente. Troviamo biblioteche, aule curate, cucina e refettorio e una sessantina di bambini sorridenti sottratti alla strada e alle sue leggi violente. Lavorano a gruppi, in base all’età. C’è chi «ricama» stoffe, chi dipinge sotto la guida di alcune assistenti. Il clima è allegro, ma di impegno. I più grandi realizzano cuscini dipinti a mano, sciarpe di lana e altri prodotti di artigianato. «Li aiutiamo ad imparare un mestiere, ma ancora più a maturare un’autostima di sé, a mostrare che è possibile realizzare qualcosa, a dare loro speranza» spiega Leda, che fa gli onori di casa. È lei ad occuparsi del Progetto adozioni a distanza, la fonte principale di finanziamento per l’attività dei nove «centri» che fanno riferimento al Cepe e al Goti. Sono circa ottocento le «adozioni» a distanza. Per gli «ospiti», tutti in età scolare, divisi in gruppi, un pasto assicurato, sostegno scolastico e un progetto educativo preciso: aiutarli a diventare cittadini. «Vivere qui significa essere esclusi da tutto. È quasi impossibile trovare lavoro per chi è di Pedreira». C’è anche un piccolo spiazzo in cemento dove i bambini giocano a pallone. «È il loro Maracanà» afferma scherzosa Leda.
A pochi metri vi è la «scuola Esperanza»: è per i più grandi. Da poco inaugurata è ancora intonacata di fresco. Si avviano i giovani al lavoro. Gli si insegna un mestiere: fornaio, pasticciere, elettricista, lavorare al telaio i tessuti e la lana, realizzare attività di artigianato. La vita può cambiare. I ragazzi hanno ambizioni precise: ingegnere chimico, programmatore di computer, elettricista. Al primo posto per tutti «poter aiutare le famiglie». «Quel centro - precisa padre Mariano - è intitolato a Frei Tito De Alencar Lima, frate domenicano come padre Giorgio, ha dedicato la sua vita alla causa dei poveri e per questo alla fine degli anni ‘60 venne arrestato, torturato ed esiliato dal regime dei generali. È morto martire». Anche qui Cepe e Goti lavorano in stretta collaborazione. È un modo concreto per combattere l’emarginazione e l’esclusione di un popolo. «Come possiamo predicare il Vangelo a gente che muore di fame? I cui diritti non solo umani, ma addirittura animali ed elementari, come quelli di potersi coprire, sfamare, riprodurre in modo degno, sono negati? È il popolo negato. È il popolo in più» commenta il padre domenicano.
Non lo preoccupa la serrata concorrenza delle «sette» neo pentecostali. Se la Chiesa di Roma è lontana, qui vi è una Chiesa che si compromette. La Teologia della Liberazione è una pratica concreta e radicata, di decine di migliaia di comunità ecclesiali di base impegnate a favore dell’uomo. Lo si è visto anche alla favela di Pereida. Un mondo, quella della povertà, che Papa Raztinger, non ha neanche sfiorato.
---
Il “pezzo” in questione parla di alcune realtà e persone che conosco in quanto, proprio qualche mese fa, sono andato da quelle parti e mi sono recato anche in una di queste strutture, la Colonia Venezia di Peruibe, citata anche nell’articolo.
Di questa mia esperienza ho scritto anche in questo blog
Quello che mi ha colpito in questo articolo è stata la supponenza dell’autore. Infatti, fin dal titolo, si capisce come lo scopo non sia quello di raccontare ai lettori le realtà visitate a San Paolo e nelle sue vicinanze, realtà shockanti, soprattutto per chi le affronta la prima volta. Lo scopo è, invece, quello di un ulteriore attacco al Papa e, ovviamente, all’istituzione che rappresenta, dimenticandosi che chi opera in Brasile, in quelle realtà, fa parte proprio di questa istituzione. Chi alcuni decenni fa è stato arrestato, torturato ed è anche morto, faceva parte di questa istituzione!
«Peccato che Papa Benedetto XVI non sia venuto da noi. Avrebbe visto cosa sia in realtà il Brasile». Con questa frase di un sindacalista cattolico, frase che esprime un desiderio più che legittimo da parte di chi dedica la sua vita agli altri, il giornalista deduce ben altre cose :” … Un commento secco. Di quelli che marcano la distanza tra mondi che non comunicano. … “.
Ma chi è Monteforte che si arroga il diritto di giudicare l’itinerario di Benedetto XVI in Brasile?
Ad una frase di Padre Mariano «Come possiamo predicare il Vangelo a gente che muore di fame? I cui diritti non solo umani, ma addirittura animali ed elementari, come quelli di potersi coprire, sfamare, riprodurre in modo degno, sono negati? È il popolo negato. È il popolo in più» è sempre il Monteforte che ribadisce “ … Se la Chiesa di Roma è lontana, qui vi è una Chiesa che si compromette. …“.
Ma chi commenta in questo modo poi sarà di quelli senz’altro contrari all’otto per mille, il cui ricavato è destinato anche a queste necessità.
E tutte le associazioni che in Italia si danno da fare per sostenere queste realtà, pur essendo associazioni laiche, non aderiscono certamente ad alcun partito politico e sono, invece, vicine a quella chiesa cattolica romana tanto vituperata!
Mancanza di fantasia
Edizioni di libri rari di vario genere, acqueforti antiche, vetri artistici di Murano, artigianato orafo fiorentino o di altro luogo italico, opere d’arte di autori contemporanei, confezioni di Sassicaia ed altre cose simili.
Questo è un elenco di “cose varie” che, penso, siano normali come doni di uno statista italiano ad un collega straniero. E’ un elenco delle prime cose che mi sono venute in mente, ma gli oggetti che potrebbero servire a questo scopo possono essere molti altri ed i più diversi.
Fra questi non vedo, però, gli orologi!
L’orologio è l’emblema della Svizzera e non dell’Italia.
Leggo, e avrete letto senz’altro tutti voi, che il vostro (non è il mio) Berlusconi ho omaggiato il collega Blair, nel corso del suo mandato, di ben 18 orologi! Non uno o due, ma diciotto!
Vi figurate cosa poteva pensare il primo ministro inglese dopo il terzo o quarto orologio? Pensate al diciottesimo!
E sì che noi italiani siamo famosi per la fantasia!
Il vostro (non il mio) ex capo del governo ha dimostrato di non essere italiano, proprio per la MANCANZA DI FANTASIA!!!!!!!!!!!!
Questo è un elenco di “cose varie” che, penso, siano normali come doni di uno statista italiano ad un collega straniero. E’ un elenco delle prime cose che mi sono venute in mente, ma gli oggetti che potrebbero servire a questo scopo possono essere molti altri ed i più diversi.
Fra questi non vedo, però, gli orologi!
L’orologio è l’emblema della Svizzera e non dell’Italia.
Leggo, e avrete letto senz’altro tutti voi, che il vostro (non è il mio) Berlusconi ho omaggiato il collega Blair, nel corso del suo mandato, di ben 18 orologi! Non uno o due, ma diciotto!
Vi figurate cosa poteva pensare il primo ministro inglese dopo il terzo o quarto orologio? Pensate al diciottesimo!
E sì che noi italiani siamo famosi per la fantasia!
Il vostro (non il mio) ex capo del governo ha dimostrato di non essere italiano, proprio per la MANCANZA DI FANTASIA!!!!!!!!!!!!
domenica 20 maggio 2007
Cambiamenti climatici e relative conseguenze
Ieri, 19 maggio, si è svolto a Venezia, presso l’ex Convento dei Servi di Maria a Sant’Elena, un convegno internazionale dal titolo "I cambiamenti climatici nel XXI secolo" con la partecipazione di due premi Nobel (Carlo Rubbia e Adolfo Perez Esquivel), nonché di due nostri ministri (Rutelli e Pecoraio Scanio) e del sindaco di Venezia Cacciari.
Il Comune di Venezia, uno degli enti patrocinatori, nell’annunciare questo evento (vedi link) invitava “ … gli operatori dell'informazione possono accreditarsi telefonando … “ Nonostante questo invito, il principale quotidiano veneziano, Il Gazzettino, ha pensato bene di non inviare alcun giornalista, a meno che non abbia ritenuto l’argomento in questione di scarsa utilità e, magari, di posticipare l’uscita del servizio. Oggi, 20 maggio, nulla c’è su questo giornale mentre si trova un servizio su “il Venezia”, quotidiano in distribuzione gratuita, ma anche sui siti di “Corriere.it” (anche con sezioni sonore – vedi sotto) e “Reuter Italia”.
Dopo essermi tolto questo “sassolino dalla scarpa”, ricordando altri miei post sul decadimento dell’informazione, vorrei prendere spunto da alcune dichiarazioni dei partecipanti per parlare, come altre volte, del problema di Venezia e dell’innalzamento del livello del medio mare e, perché no, anche del MOSE.
Si sa, ormai è un dato accettato da tutti, anche se in modi diversi, che l’emissione dell’anidride carbonica nell’atmosfera porta ad un riscaldamento del pianeta ed una delle conseguenze sarà l’innalzamento del livello marino. Il “Nobel” Rubbia ha detto, fra l’altro, che stiamo andando “ … verso una società futura dominata dal carbone, il peggiore di tutti i materiali”. Per questo motivo è necessario “ … creare una vera alternativa tecnologica a tutto quello che c'è da bruciare e anche a non alti costi.”
Fra queste alternative … gli specchi ustori di Archimede! Si, avete letto bene! L’invenzione dello scienziato siracusano di oltre duemila anni fa, e che allora (212 a.c.), secondo la leggenda, servì a bruciare le navi dei romani che assediavano Siracusa, riaccende, negli scienziati moderni, l’idea di produrre energia rinnovabile. (vedi link) Ovviamente anche altre tecniche dovranno essere usate per la produzione di energie alternative, ma quella, forse, più decisiva è la “solare”, “ … non in Europa ma nel sistema Sahara. La grande soluzione è rappresentata dall'Africa”. Quest’ultima frase di Rubbia, visto che l’informazione non dà altre precisazioni, mi induce a credere che nel XXI secolo il continente africano sarà uno dei più grandi produttori di energia alternativa, o meglio, solare. È ovvio che tutto ciò recherà un enorme beneficio all’Africa, sempre che “altri interessi” non dirottino questa opportunità e sempre che i vari stati africani arrivino a delle democrazie reali. Sarà così?
Il problema dell’innalzamento marino, sempre nell’ambito del convegno, fa rilasciare al nostro sindaco, fra l’altro, questa dichiarazione: "I dati legati ai cambiamenti climatici sono impressionanti. A Venezia, in un secolo, il mare ha mangiato 28 centimetri alla città. Ma le vere novità sono la rapidità del fenomeno e la mole degli interventi che sarebbero necessari per mettere a riparo dal processo. L'altro elemento preoccupante è il dato dell'erosione del sistema lagunare, un problema che non viene assolutamente affrontato con le opere in corso". Da questo derivano anche le riserve espresse sulla realizzazione del MoSE.
Ed a proposito di alternative alle paratie mobili in costruzione (sembra che lo stato di avanzamento dei lavori sia al 31%) proprio ieri, in altro ambito, ma che comunque hanno avuto ripercussioni anche al convegno, sono state presentate delle soluzioni di innalzamento di costruzioni, e di porzioni più ampie del territorio, anche fino a 50 centimetri ed oltre.
La soluzione di alzare Venezia è in discussione da parecchi anni e, mi sembra, che sia stato anche fatto un tentativo nell’isola di Poveglia; probabilmente i risultati raggiunti allora ed i costi, forse esorbitanti, hanno fatto sì che non se ne parlasse più. Oggi questo sistema viene riproposto e, senz’altro, vi saranno delle innovazioni tecniche e, soprattutto, almeno sembra, i costi dovrebbero essere contenuti.
"Ho visto questa tecnologia presentata in molti convegni, quindi è già conosciuta e sembra abbia un futuro abbastanza roseo. Anche se non conosco i dettagli ingegneristici di questo progetto...se è in grado di alzare gli edifici, come si legge, di un metro, c'è da ben sperare per la città di Venezia", così commenta il direttore del Centro di Previsione della Maree del Comune di Venezia Paolo Canestrelli.
A margine del convegno si è avuta la notizia che il Ministero dell’Ambiente ha inviato degli ispettori sui cantieri del Mose, una notizia che ha fatto felici i detrattori di questi lavori, che, a Venezia, sono molti. Diciamo che ce li hanno voluti imporre il governo di centro-destra con l’avvallo successivo di quello attuale.
Link utili a chi desidera approfondire
Articolo su Corriere.it
Articolo su Reuter Italia
Articolo su “il Venezia” relativo al Convegno
Articolo su “il Venezia” relativo al MoSE
Audio di Pecoraio Scanio
Audio di Cacciari
Audio di Paolo Pirazzoli
Audio di Carlo Rubbia
Il Comune di Venezia, uno degli enti patrocinatori, nell’annunciare questo evento (vedi link) invitava “ … gli operatori dell'informazione possono accreditarsi telefonando … “ Nonostante questo invito, il principale quotidiano veneziano, Il Gazzettino, ha pensato bene di non inviare alcun giornalista, a meno che non abbia ritenuto l’argomento in questione di scarsa utilità e, magari, di posticipare l’uscita del servizio. Oggi, 20 maggio, nulla c’è su questo giornale mentre si trova un servizio su “il Venezia”, quotidiano in distribuzione gratuita, ma anche sui siti di “Corriere.it” (anche con sezioni sonore – vedi sotto) e “Reuter Italia”.
Dopo essermi tolto questo “sassolino dalla scarpa”, ricordando altri miei post sul decadimento dell’informazione, vorrei prendere spunto da alcune dichiarazioni dei partecipanti per parlare, come altre volte, del problema di Venezia e dell’innalzamento del livello del medio mare e, perché no, anche del MOSE.
Si sa, ormai è un dato accettato da tutti, anche se in modi diversi, che l’emissione dell’anidride carbonica nell’atmosfera porta ad un riscaldamento del pianeta ed una delle conseguenze sarà l’innalzamento del livello marino. Il “Nobel” Rubbia ha detto, fra l’altro, che stiamo andando “ … verso una società futura dominata dal carbone, il peggiore di tutti i materiali”. Per questo motivo è necessario “ … creare una vera alternativa tecnologica a tutto quello che c'è da bruciare e anche a non alti costi.”
Fra queste alternative … gli specchi ustori di Archimede! Si, avete letto bene! L’invenzione dello scienziato siracusano di oltre duemila anni fa, e che allora (212 a.c.), secondo la leggenda, servì a bruciare le navi dei romani che assediavano Siracusa, riaccende, negli scienziati moderni, l’idea di produrre energia rinnovabile. (vedi link) Ovviamente anche altre tecniche dovranno essere usate per la produzione di energie alternative, ma quella, forse, più decisiva è la “solare”, “ … non in Europa ma nel sistema Sahara. La grande soluzione è rappresentata dall'Africa”. Quest’ultima frase di Rubbia, visto che l’informazione non dà altre precisazioni, mi induce a credere che nel XXI secolo il continente africano sarà uno dei più grandi produttori di energia alternativa, o meglio, solare. È ovvio che tutto ciò recherà un enorme beneficio all’Africa, sempre che “altri interessi” non dirottino questa opportunità e sempre che i vari stati africani arrivino a delle democrazie reali. Sarà così?
Il problema dell’innalzamento marino, sempre nell’ambito del convegno, fa rilasciare al nostro sindaco, fra l’altro, questa dichiarazione: "I dati legati ai cambiamenti climatici sono impressionanti. A Venezia, in un secolo, il mare ha mangiato 28 centimetri alla città. Ma le vere novità sono la rapidità del fenomeno e la mole degli interventi che sarebbero necessari per mettere a riparo dal processo. L'altro elemento preoccupante è il dato dell'erosione del sistema lagunare, un problema che non viene assolutamente affrontato con le opere in corso". Da questo derivano anche le riserve espresse sulla realizzazione del MoSE.
Ed a proposito di alternative alle paratie mobili in costruzione (sembra che lo stato di avanzamento dei lavori sia al 31%) proprio ieri, in altro ambito, ma che comunque hanno avuto ripercussioni anche al convegno, sono state presentate delle soluzioni di innalzamento di costruzioni, e di porzioni più ampie del territorio, anche fino a 50 centimetri ed oltre.
La soluzione di alzare Venezia è in discussione da parecchi anni e, mi sembra, che sia stato anche fatto un tentativo nell’isola di Poveglia; probabilmente i risultati raggiunti allora ed i costi, forse esorbitanti, hanno fatto sì che non se ne parlasse più. Oggi questo sistema viene riproposto e, senz’altro, vi saranno delle innovazioni tecniche e, soprattutto, almeno sembra, i costi dovrebbero essere contenuti.
"Ho visto questa tecnologia presentata in molti convegni, quindi è già conosciuta e sembra abbia un futuro abbastanza roseo. Anche se non conosco i dettagli ingegneristici di questo progetto...se è in grado di alzare gli edifici, come si legge, di un metro, c'è da ben sperare per la città di Venezia", così commenta il direttore del Centro di Previsione della Maree del Comune di Venezia Paolo Canestrelli.
A margine del convegno si è avuta la notizia che il Ministero dell’Ambiente ha inviato degli ispettori sui cantieri del Mose, una notizia che ha fatto felici i detrattori di questi lavori, che, a Venezia, sono molti. Diciamo che ce li hanno voluti imporre il governo di centro-destra con l’avvallo successivo di quello attuale.
Link utili a chi desidera approfondire
Articolo su Corriere.it
Articolo su Reuter Italia
Articolo su “il Venezia” relativo al Convegno
Articolo su “il Venezia” relativo al MoSE
Audio di Pecoraio Scanio
Audio di Cacciari
Audio di Paolo Pirazzoli
Audio di Carlo Rubbia
venerdì 18 maggio 2007
Vietato degustare un panino in Piazza!
Vietati i pic-nic in Piazza, ovviamente quella di San Marco a Venezia, l’unica piazza della città, perché tutti gli altri spiazzi cittadini si chiamano campi e campielli, se più piccoli. Fatta questa precisazione per i non veneziani, cercherò di ipotizzare cosa succederà.
Già ora non è possibile sedersi sui gradini che attorniano la Piazza e mangiare, neppure un panino, ma questo sta solo scritto, perché, in effetti, lì succede di tutto. In questi giorni c’è stato perfino chi, “per provocazione” ha dichiarato, ha steso un materassino e si è messo a dormire con tanto di copertina.
Nella nostra città arrivano 12 milioni di turisti all’anno; diciamo che 10 milioni vanno in Piazza. Dividete 10 milioni per i 365 giorni e salta fuori il numero delle persone, in gita a Venezia, che, giornalmente visita la zona certamente più spettacolare; avete fatto la divisione? Sono più di 27 mila persone!
Non tutte vanno nei ristoranti cittadini, anche, e soprattutto, perché sono piuttosto cari; inoltre alcuni vengono per poche ore e, sedersi ad un ristorante può portare via del tempo prezioso alla visita della città.
Qualcuno (sempre nell’ambito degli amministratori cittadini) aveva pensato di vietare la distribuzione di bevande e panini nei locali immediatamente vicini, ma ha scelto diversamente ipotizzando un immediato ricorso al TAR degli esercenti, con il risultato di veder annullare l’ordinanza.
E poi non avrebbe avuto alcun effetto su coloro che si portano panini e bevande da casa senza lasciare un soldo ai “poveri esercenti”! A proposito, questa è la categoria più invisa (sgradita, antipatica, indigesta) ai commercianti ed a tutti coloro che vivono sul turismo, ma che, in ogni caso, cercano di sfruttare il turista.
Quando entrerà in vigore l’ordinanza chissà se saranno già approntati gli avvisi in “enne” lingue, e non solo in inglese, francese e tedesco (se vai un po’ in giro senti ogni tipo di idioma). Infatti, se vuoi ottenere l’effetto desiderato, dovrai anche informare. Inoltre, si sa, ogni regolamento viene attuato solo se c’è una vigilanza adeguata numericamente e continua nell’arco delle ventiquattro ore (Piazza San Marco non è mai vuota); sembra, invece, che il personale che dovrà seguire questa situazione sia solo di sei unità! Pochi, pochissimi! E non saranno neppure appartenenti alla Polizia Municipale, ma solo degli “steward” e non si sa con quali poteri. Ve li figurate mentre affrontano una comitiva che, magari con il naso per aria ad ammirare la Basilica od il Palazzo Ducale, nel frattempo deglutiscono i bocconi di un panino e nell’altra mano tengono l’immancabile Coca Cola? Magari non parlano una parola di inglese, francese o tedesco. Come minimo protesteranno, magari rumorosamente. Cosa farà il “povero steward”? Chiamerà aiuto? Intanto la comitiva si dileguerà.
Si sa, Venezia non è una città semplice da gestire, però non è da ieri che siamo in questa situazione; sono mesi, anzi anni, che i nostri politici sparano qualche proposta, ci filosofano sopra, discutono, cambiano idee più spesso delle mutande, fanno proposte mentre altri rilanciano con altre proposte di senso contrario. Insomma non se ne può più!
Vedremo, quindi, i risultati di questa nuova ordinanza!
Dichiarandomi pessimista sull’attuazione dell’ordinanza in questione, concludo con la mia proposta: tagliare il ponte che unisce Venezia alla terraferma e far arrivare i turisti … a nuoto. Alcuni periranno per l’inquinamento delle acque e solo i più forti e, ovviamente, i più ricchi arriveranno fra i canali e le calli. Solo così sentiranno il bisogno di riposarsi e mangiare al ristorante!
Forse, con questa balzana (ma non tanto) idea spariranno i turisti, chiuderanno gli alberghi, abbasseranno le saracinesche i bar ed i ristoranti, chiuderanno i B&B, le case in affitto (in nero), i gondolieri spenderanno i loro ultimi soldi in “ombre de vin” assieme ai motoscafisti (abusivi e non), ma, almeno, … moriremo in pace!
---
Leggi la cronaca cittadina sull’argomento.
Già ora non è possibile sedersi sui gradini che attorniano la Piazza e mangiare, neppure un panino, ma questo sta solo scritto, perché, in effetti, lì succede di tutto. In questi giorni c’è stato perfino chi, “per provocazione” ha dichiarato, ha steso un materassino e si è messo a dormire con tanto di copertina.
Nella nostra città arrivano 12 milioni di turisti all’anno; diciamo che 10 milioni vanno in Piazza. Dividete 10 milioni per i 365 giorni e salta fuori il numero delle persone, in gita a Venezia, che, giornalmente visita la zona certamente più spettacolare; avete fatto la divisione? Sono più di 27 mila persone!
Non tutte vanno nei ristoranti cittadini, anche, e soprattutto, perché sono piuttosto cari; inoltre alcuni vengono per poche ore e, sedersi ad un ristorante può portare via del tempo prezioso alla visita della città.
Qualcuno (sempre nell’ambito degli amministratori cittadini) aveva pensato di vietare la distribuzione di bevande e panini nei locali immediatamente vicini, ma ha scelto diversamente ipotizzando un immediato ricorso al TAR degli esercenti, con il risultato di veder annullare l’ordinanza.
E poi non avrebbe avuto alcun effetto su coloro che si portano panini e bevande da casa senza lasciare un soldo ai “poveri esercenti”! A proposito, questa è la categoria più invisa (sgradita, antipatica, indigesta) ai commercianti ed a tutti coloro che vivono sul turismo, ma che, in ogni caso, cercano di sfruttare il turista.
Quando entrerà in vigore l’ordinanza chissà se saranno già approntati gli avvisi in “enne” lingue, e non solo in inglese, francese e tedesco (se vai un po’ in giro senti ogni tipo di idioma). Infatti, se vuoi ottenere l’effetto desiderato, dovrai anche informare. Inoltre, si sa, ogni regolamento viene attuato solo se c’è una vigilanza adeguata numericamente e continua nell’arco delle ventiquattro ore (Piazza San Marco non è mai vuota); sembra, invece, che il personale che dovrà seguire questa situazione sia solo di sei unità! Pochi, pochissimi! E non saranno neppure appartenenti alla Polizia Municipale, ma solo degli “steward” e non si sa con quali poteri. Ve li figurate mentre affrontano una comitiva che, magari con il naso per aria ad ammirare la Basilica od il Palazzo Ducale, nel frattempo deglutiscono i bocconi di un panino e nell’altra mano tengono l’immancabile Coca Cola? Magari non parlano una parola di inglese, francese o tedesco. Come minimo protesteranno, magari rumorosamente. Cosa farà il “povero steward”? Chiamerà aiuto? Intanto la comitiva si dileguerà.
Si sa, Venezia non è una città semplice da gestire, però non è da ieri che siamo in questa situazione; sono mesi, anzi anni, che i nostri politici sparano qualche proposta, ci filosofano sopra, discutono, cambiano idee più spesso delle mutande, fanno proposte mentre altri rilanciano con altre proposte di senso contrario. Insomma non se ne può più!
Vedremo, quindi, i risultati di questa nuova ordinanza!
Dichiarandomi pessimista sull’attuazione dell’ordinanza in questione, concludo con la mia proposta: tagliare il ponte che unisce Venezia alla terraferma e far arrivare i turisti … a nuoto. Alcuni periranno per l’inquinamento delle acque e solo i più forti e, ovviamente, i più ricchi arriveranno fra i canali e le calli. Solo così sentiranno il bisogno di riposarsi e mangiare al ristorante!
Forse, con questa balzana (ma non tanto) idea spariranno i turisti, chiuderanno gli alberghi, abbasseranno le saracinesche i bar ed i ristoranti, chiuderanno i B&B, le case in affitto (in nero), i gondolieri spenderanno i loro ultimi soldi in “ombre de vin” assieme ai motoscafisti (abusivi e non), ma, almeno, … moriremo in pace!
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Leggi la cronaca cittadina sull’argomento.
mercoledì 16 maggio 2007
Libertà e indipendenza dei giornalisti. Come la pensava Ryszard Kapuściński
Ho letto, in questi giorni, “Il cinico non è adatto a questo mestiere”, una raccolta di conversazioni “sul buon giornalismo” dello scrittore e giornalista polacco Ryszard Kapuściński, deceduto di recente.
La conversazione, dalla quale ho estrapolato il pezzo sotto notato, è relativa all’incontro avvenuto a Capodarco di Fermo (AP) il 27 novembre 1999, nell’ambito del VI Convegno “Redattore di classe” intitolato “Di razza e di classe. Il giornalismo tra voglia d’élite, coinvolgimento, indifferenza”.
Già in questo blog ho scritto in relazione all’informazione in generale, ma l’argomento in questione, la libertà e l’indipendenza dei giornalisti, molto interessante, era attuale allora e lo è anche adesso.
Vi lascio, quindi, senza altri commenti, alla lettura, ed alla meditazione, di ciò che pensava chi è stato ben più qualificato a trattare.
Domanda dal pubblico: Si è detto di un giornalismo che fa attenzione soprattutto ai deboli, di una professione pericolosa, che consuma. Vorrei sapere, nella sua esperienza prima di tutto di uomo e poi di giornalista, qual è stato il suo rapporto con il potere, in particolare con i regimi dell'Est europeo, e quale dovrebbe essere oggi il rapporto del giornalista con il potere.
Ryszard Kapuściński: È una domanda veramente complessa. Io ho una lunga storia giornalistica da raccontare e occorrerebbe scrivere un libro per rispondere compiutamente. Non c'è una sola regola. L'ideale è quello di essere il più indipendenti possibile, ma la vita è lontana dall' essere un ideale. Un giornalista è sottoposto a molte e diverse pressioni perché scriva ciò che il suo padrone vuole che egli scriva. La nostra professione è una lotta costante tra il nostro sogno, la nostra volontà di essere del tutto indipendenti e le situazioni reali in cui ci troviamo, che ci costringono ad essere invece dipendenti da interessi, punti di vista, aspettative dei nostri editori. .
Ci sono paesi in cui esiste la censura, e allora bisogna lottare per evitarla e per scrivere quanto più possibile ciò che si intende scrivere, nonostante tutto. Ci sono paesi in cui c'è libertà di espressione, in cui non esiste una censura ufficiale, ma la libertà del giornalista è limitata dagli interessi della testata per la quale lavora. In molti casi il giornalista, specialmente se è giovane, deve sottostare a molti compromessi e usare varie tattiche per evitare il confronto diretto, e cosi via. Ma non sempre è possibile, ed è questo il motivo per cui si verificano così tanti casi di persecuzione. Sono tecniche di persecuzione indubbiamente diverse da quelle violente di cui parlavo in precedenza: assumono la forma del licenziamento, dell' emarginazione di fatto dalla vita lavorativa, della minaccia di natura economica. In generale si tratta di una professione che richiede una continua lotta e un costante stato di allerta. Per rispondere concretamente alla sua domanda, bisognerebbe analizzare caso per caso, ma è comunque difficile dire se in un determinato paese la situazione sia migliore o peggiore che in un altro. Le cose fluttuano, cambiano in pochi anni. In generale, la conquista di ogni pezzetto della nostra indipendenza richiede una battaglia.
Ognuno di noi, dopo un certo numero di anni di lavoro e di viaggi, ha nel suo curriculum almeno un caso personale di persecuzione, di espulsione da qualche paese, di fermo, di tensione con la polizia o le autorità, che magari rifiutano di concedere il visto, che usano centinaia di espedienti per renderci difficile la vita.
________
Questi i link ai miei post precedenti sul giornalismo:
http://sp1938.blogspot.com/2007/04/il-giornalismo-secondo-kapuciski.html
http://sp1938.blogspot.com/2007/02/ancora-vera-informazione-quella-che-si.html
http://sp1938.blogspot.com/2006/06/notizia-veramente-importante-su-il.html
http://sp1938.blogspot.com/2006/06/notizie-in-risalto-arresto-di.html
http://sp1938.blogspot.com/2006/06/com-caduta-in-basso-linformazione.html
La conversazione, dalla quale ho estrapolato il pezzo sotto notato, è relativa all’incontro avvenuto a Capodarco di Fermo (AP) il 27 novembre 1999, nell’ambito del VI Convegno “Redattore di classe” intitolato “Di razza e di classe. Il giornalismo tra voglia d’élite, coinvolgimento, indifferenza”.
Già in questo blog ho scritto in relazione all’informazione in generale, ma l’argomento in questione, la libertà e l’indipendenza dei giornalisti, molto interessante, era attuale allora e lo è anche adesso.
Vi lascio, quindi, senza altri commenti, alla lettura, ed alla meditazione, di ciò che pensava chi è stato ben più qualificato a trattare.
Domanda dal pubblico: Si è detto di un giornalismo che fa attenzione soprattutto ai deboli, di una professione pericolosa, che consuma. Vorrei sapere, nella sua esperienza prima di tutto di uomo e poi di giornalista, qual è stato il suo rapporto con il potere, in particolare con i regimi dell'Est europeo, e quale dovrebbe essere oggi il rapporto del giornalista con il potere.
Ryszard Kapuściński: È una domanda veramente complessa. Io ho una lunga storia giornalistica da raccontare e occorrerebbe scrivere un libro per rispondere compiutamente. Non c'è una sola regola. L'ideale è quello di essere il più indipendenti possibile, ma la vita è lontana dall' essere un ideale. Un giornalista è sottoposto a molte e diverse pressioni perché scriva ciò che il suo padrone vuole che egli scriva. La nostra professione è una lotta costante tra il nostro sogno, la nostra volontà di essere del tutto indipendenti e le situazioni reali in cui ci troviamo, che ci costringono ad essere invece dipendenti da interessi, punti di vista, aspettative dei nostri editori. .
Ci sono paesi in cui esiste la censura, e allora bisogna lottare per evitarla e per scrivere quanto più possibile ciò che si intende scrivere, nonostante tutto. Ci sono paesi in cui c'è libertà di espressione, in cui non esiste una censura ufficiale, ma la libertà del giornalista è limitata dagli interessi della testata per la quale lavora. In molti casi il giornalista, specialmente se è giovane, deve sottostare a molti compromessi e usare varie tattiche per evitare il confronto diretto, e cosi via. Ma non sempre è possibile, ed è questo il motivo per cui si verificano così tanti casi di persecuzione. Sono tecniche di persecuzione indubbiamente diverse da quelle violente di cui parlavo in precedenza: assumono la forma del licenziamento, dell' emarginazione di fatto dalla vita lavorativa, della minaccia di natura economica. In generale si tratta di una professione che richiede una continua lotta e un costante stato di allerta. Per rispondere concretamente alla sua domanda, bisognerebbe analizzare caso per caso, ma è comunque difficile dire se in un determinato paese la situazione sia migliore o peggiore che in un altro. Le cose fluttuano, cambiano in pochi anni. In generale, la conquista di ogni pezzetto della nostra indipendenza richiede una battaglia.
Ognuno di noi, dopo un certo numero di anni di lavoro e di viaggi, ha nel suo curriculum almeno un caso personale di persecuzione, di espulsione da qualche paese, di fermo, di tensione con la polizia o le autorità, che magari rifiutano di concedere il visto, che usano centinaia di espedienti per renderci difficile la vita.
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Questi i link ai miei post precedenti sul giornalismo:
http://sp1938.blogspot.com/2007/04/il-giornalismo-secondo-kapuciski.html
http://sp1938.blogspot.com/2007/02/ancora-vera-informazione-quella-che-si.html
http://sp1938.blogspot.com/2006/06/notizia-veramente-importante-su-il.html
http://sp1938.blogspot.com/2006/06/notizie-in-risalto-arresto-di.html
http://sp1938.blogspot.com/2006/06/com-caduta-in-basso-linformazione.html
martedì 15 maggio 2007
Blogger = giornalisti?
Un nuovo provvedimento legislativo USA, che sta per essere approvato in questi giorni, una legge a tutela delle fonti d’informazione, farà sì che non solo i giornalisti abbiano il diritto alla riservatezza delle fonti d’informazione, ma anche i blogger.
In un certo senso paragona i giornalisti ai blogger perché …editori di se stessi, che scrivono sulla “rete”.
La “Free Flow of Information Act 2007”, questo è il nome del documento legislativo, si spinge a definire cosa si dovrà intendere per “giornalismo”, che comprenderà, quindi, qualsiasi informazione diffusa con ogni mezzo.
Questo accade negli USA, ma, si sa, essendo la rete qualcosa d’universale, questa teoria sarà allargata a tutto il mondo dei blogger, compresi quelli italiani. Magari una legge simile non verrà mai attuata da noi, però, quanto successo oltre oceano autorizzerà, purtroppo, tutti i blogger nostrani a ritenersi dei “giornalisti”.
Ma vediamo un po’ chi sono i blogger italiani, perché è questo che m’interessa ed anche perché anch’io faccio parte di questo mondo.
Preciso subito che non mi ritengo un giornalista.
Detto questo, mi sento di affermare che per far parte di questa categoria bisognerebbe, innanzi tutto, non commettere errori d’ortografia né di grammatica; per carità, con queste caratteristiche anche molti giornalisti dovrebbero chiudere. Il mondo dei blogger, però, eccelle in questa categoria. Per non parlare di coloro che si cimentano in “pezzi” di notevole lunghezza usando il linguaggio dei telefonini (come odio i “xké” ed i “6”!).
Tolti tutti questi e, ripeto, sono la stragrande maggioranza, restano: i tecnici (a volte utili), vari tipi di maniaci (è meglio lasciarli stare), estensori di diari (ognuno ha il suo debole), coloro che credono di proporre la “Verità” (ci sono sempre stati anche quando non esisteva la rete) , coloro ai quali piace scrivere (ognuno ha i suoi gusti) e, infine, i perennemente “incazzati” (sono molti) contro tutto e contro tutti, di destra, di sinistra e di centro.
Giornalisti ne vedo ben pochi!
In quale categoria mi piazzo? Non lo so, fate voi!
Al prossimo “pezzo giornalistico”!
In un certo senso paragona i giornalisti ai blogger perché …editori di se stessi, che scrivono sulla “rete”.
La “Free Flow of Information Act 2007”, questo è il nome del documento legislativo, si spinge a definire cosa si dovrà intendere per “giornalismo”, che comprenderà, quindi, qualsiasi informazione diffusa con ogni mezzo.
Questo accade negli USA, ma, si sa, essendo la rete qualcosa d’universale, questa teoria sarà allargata a tutto il mondo dei blogger, compresi quelli italiani. Magari una legge simile non verrà mai attuata da noi, però, quanto successo oltre oceano autorizzerà, purtroppo, tutti i blogger nostrani a ritenersi dei “giornalisti”.
Ma vediamo un po’ chi sono i blogger italiani, perché è questo che m’interessa ed anche perché anch’io faccio parte di questo mondo.
Preciso subito che non mi ritengo un giornalista.
Detto questo, mi sento di affermare che per far parte di questa categoria bisognerebbe, innanzi tutto, non commettere errori d’ortografia né di grammatica; per carità, con queste caratteristiche anche molti giornalisti dovrebbero chiudere. Il mondo dei blogger, però, eccelle in questa categoria. Per non parlare di coloro che si cimentano in “pezzi” di notevole lunghezza usando il linguaggio dei telefonini (come odio i “xké” ed i “6”!).
Tolti tutti questi e, ripeto, sono la stragrande maggioranza, restano: i tecnici (a volte utili), vari tipi di maniaci (è meglio lasciarli stare), estensori di diari (ognuno ha il suo debole), coloro che credono di proporre la “Verità” (ci sono sempre stati anche quando non esisteva la rete) , coloro ai quali piace scrivere (ognuno ha i suoi gusti) e, infine, i perennemente “incazzati” (sono molti) contro tutto e contro tutti, di destra, di sinistra e di centro.
Giornalisti ne vedo ben pochi!
In quale categoria mi piazzo? Non lo so, fate voi!
Al prossimo “pezzo giornalistico”!
mercoledì 9 maggio 2007
Un modo intelligente di visitare Venezia.
Questa mattina, uscendo di casa, ho trovato, nello spazio antistante il portone, un gruppo di persone, straniere e per lo più donne di una certa età, con fogli di carta, matite e seggiolino in tela (vedi foto).
Sono rimasto piacevolmente sorpreso in quanto, spesso, si trovano persone che disegnano o dipingono scorci di Venezia, ma non così numerose.
Fermarsi per ore in un determinato posto e ritrarlo, non con la veloce macchina digitale, ma con tratto grafico e con certosina pazienza, cogliendone i particolari, è senz’altro uno dei modi più belli, diciamo pure più intelligenti, di visitare Venezia. Mi è piaciuto anche il fatto che tutto questo avveniva in compagnia.
Sono rimasto piacevolmente sorpreso in quanto, spesso, si trovano persone che disegnano o dipingono scorci di Venezia, ma non così numerose.
Fermarsi per ore in un determinato posto e ritrarlo, non con la veloce macchina digitale, ma con tratto grafico e con certosina pazienza, cogliendone i particolari, è senz’altro uno dei modi più belli, diciamo pure più intelligenti, di visitare Venezia. Mi è piaciuto anche il fatto che tutto questo avveniva in compagnia.
Riuscirò a vedere il Ponte di Calatrava?
Ancora problemi per il Ponte di Calatrava, il quarto ponte sul Canal Grande! Progettato da anni, dall’architetto spagnolo Calatrava, questo manufatto dovrebbe congiungere il terminal automobilistico veneziano di Piazzale Roma con la ferrovia.
Voluto dalla precedente amministrazione comunale, quella guidata dal sindaco Costa, ha avuto una serie di “difficoltà”, di progettazione e di lavorazione, nonché di prospettive circa la sua posa in opera.
In un primo momento avrebbe dovuto venire assemblato in un unico pezzo e, in queste condizioni (circa 80 metri di lunghezza), avrebbe dovuto entrare in Canal Grande, navigando su chiatte, e passare sotto i tre ponti attualmente esistenti. Il passaggio più difficoltoso sarebbe stato quello sotto il ponte di Rialto perché, subito dopo, si trova una curva.
Scartata questa ipotesi, si è ricorsi alla suddivisione dell’arco del ponte in tre “conci” che, una volta assemblati in prova, avrebbero dovuto essere trasportati separatamente in loco, e lì montati nuovamente.
Intanto sono passati gli anni ed i costi continuano ad aumentare.
C’è chi dice che il ponte sarà bellissimo, chi lo considera già un’opera d’arte, chi lo vede inutile e chi, invece, utilissimo. Poi c’è chi protesta perché, quando sarà in uso, parte del traffico pedonale (comitive di turisti) prenderà un’altra strada, ed allora i lauti guadagni di alcune bancarelle che vendono paccottiglia “Made in China” finiranno.
Insomma, il ponte non è ancora su, e non si sa quando e se andrà su, che già, e da anni, a Venezia se ne parla, bene o male, con tutti i “bizantinismi” conseguenti, cosa quest’ultima, molto di moda nella mia città! Anzi, il “bizantinismo” è una qualità peculiare dei veneziani e, soprattutto, della politica veneziana; d’altra parte la nostra civiltà nasce e discende dall’Impero Romano d’Oriente o Bizantino.
Ultimamente sembrava in dirittura d’arrivo, quando è sorta un’altra questione: terranno le due basi, e le relative fondazioni, che già si vedono, ormai da tempo, sulle due rive, il peso della spinta che l’arco imprimerà loro? (Vedi articoli de Il Gazzettino e di Repubblica.it)
Si sa che Venezia è costruita, da sempre, sul fango: le isole che formano la città non sono altro che l’antico estuario del fiume Brenta e, quindi, alluvionali. Ma pure, nel corso dei secoli, chi ci ha preceduto ha costruito ponti, palazzi, chiese, il tutto anche di notevoli dimensioni, che si trovano ancora al loro posto dopo secoli. Evidentemente sapevano costruire, e costruire a Venezia. Come hanno fatto a tirar su tutte quelle costruzioni che oggi sono ammirate dal mondo intero? Evidentemente iniziavano dalla fondazioni che dovevano essere costruite; per sapere come, vi rimando ad un altro mio scritto circa la spiegazione di un antico canto di lavoro veneziano, “Il canto dei battipali” (clicca qui).
Pensate al Ponte di Rialto, tutto in pietra, quindi più pesante di quello di Calatrava, che sarà di vetro e cemento; chissà che spinta produce sulle fondazioni? Non sono un tecnico e, quindi, non posso esprimermi in termini numerici, però, penso sia enorme. Cosa hanno pensato oltre cinquecento anni fa! Semplicemente di costruire, sulle due rive ai piedi del ponte, dei palazzi, con le relative fondazioni, con la funzione di contenere la spinta.
Allora, mi chiedo, perché oggi non hanno pensato a qualcosa di simile? Ma non sono un tecnico e quindi vi lascio senza risposta. L’unica cosa che ora salta fuori è che è tutta colpa dei sistemi di gara d’appalto vigenti in Italia: cioè vince chi tiene il prezzo più basso, senza tenere in alcun conto come opererà l’azienda vincente.
Finale: riuscirò a vedere il Ponte di Calatrava?
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P.S. – Su questo argomento tratta anche il blog dell’amico Toni
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AGGIORNAMENTO del pomeriggio del 9.5.2007
Il Gazzettino di oggi pubblica la notizia (clicca qui) dell'annuncio che il ponte andrà su a giugno-luglio! Però, non è indicato lanno!
Voluto dalla precedente amministrazione comunale, quella guidata dal sindaco Costa, ha avuto una serie di “difficoltà”, di progettazione e di lavorazione, nonché di prospettive circa la sua posa in opera.
In un primo momento avrebbe dovuto venire assemblato in un unico pezzo e, in queste condizioni (circa 80 metri di lunghezza), avrebbe dovuto entrare in Canal Grande, navigando su chiatte, e passare sotto i tre ponti attualmente esistenti. Il passaggio più difficoltoso sarebbe stato quello sotto il ponte di Rialto perché, subito dopo, si trova una curva.
Scartata questa ipotesi, si è ricorsi alla suddivisione dell’arco del ponte in tre “conci” che, una volta assemblati in prova, avrebbero dovuto essere trasportati separatamente in loco, e lì montati nuovamente.
Intanto sono passati gli anni ed i costi continuano ad aumentare.
C’è chi dice che il ponte sarà bellissimo, chi lo considera già un’opera d’arte, chi lo vede inutile e chi, invece, utilissimo. Poi c’è chi protesta perché, quando sarà in uso, parte del traffico pedonale (comitive di turisti) prenderà un’altra strada, ed allora i lauti guadagni di alcune bancarelle che vendono paccottiglia “Made in China” finiranno.
Insomma, il ponte non è ancora su, e non si sa quando e se andrà su, che già, e da anni, a Venezia se ne parla, bene o male, con tutti i “bizantinismi” conseguenti, cosa quest’ultima, molto di moda nella mia città! Anzi, il “bizantinismo” è una qualità peculiare dei veneziani e, soprattutto, della politica veneziana; d’altra parte la nostra civiltà nasce e discende dall’Impero Romano d’Oriente o Bizantino.
Ultimamente sembrava in dirittura d’arrivo, quando è sorta un’altra questione: terranno le due basi, e le relative fondazioni, che già si vedono, ormai da tempo, sulle due rive, il peso della spinta che l’arco imprimerà loro? (Vedi articoli de Il Gazzettino e di Repubblica.it)
Si sa che Venezia è costruita, da sempre, sul fango: le isole che formano la città non sono altro che l’antico estuario del fiume Brenta e, quindi, alluvionali. Ma pure, nel corso dei secoli, chi ci ha preceduto ha costruito ponti, palazzi, chiese, il tutto anche di notevoli dimensioni, che si trovano ancora al loro posto dopo secoli. Evidentemente sapevano costruire, e costruire a Venezia. Come hanno fatto a tirar su tutte quelle costruzioni che oggi sono ammirate dal mondo intero? Evidentemente iniziavano dalla fondazioni che dovevano essere costruite; per sapere come, vi rimando ad un altro mio scritto circa la spiegazione di un antico canto di lavoro veneziano, “Il canto dei battipali” (clicca qui).
Pensate al Ponte di Rialto, tutto in pietra, quindi più pesante di quello di Calatrava, che sarà di vetro e cemento; chissà che spinta produce sulle fondazioni? Non sono un tecnico e, quindi, non posso esprimermi in termini numerici, però, penso sia enorme. Cosa hanno pensato oltre cinquecento anni fa! Semplicemente di costruire, sulle due rive ai piedi del ponte, dei palazzi, con le relative fondazioni, con la funzione di contenere la spinta.
Allora, mi chiedo, perché oggi non hanno pensato a qualcosa di simile? Ma non sono un tecnico e quindi vi lascio senza risposta. L’unica cosa che ora salta fuori è che è tutta colpa dei sistemi di gara d’appalto vigenti in Italia: cioè vince chi tiene il prezzo più basso, senza tenere in alcun conto come opererà l’azienda vincente.
Finale: riuscirò a vedere il Ponte di Calatrava?
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P.S. – Su questo argomento tratta anche il blog dell’amico Toni
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AGGIORNAMENTO del pomeriggio del 9.5.2007
Il Gazzettino di oggi pubblica la notizia (clicca qui) dell'annuncio che il ponte andrà su a giugno-luglio! Però, non è indicato lanno!
venerdì 4 maggio 2007
Rifiuti in ogni luogo, ma non davanti alla propria abitazione.
Quella che leggete sotto è la lettera che ho inviato, in data odierna, ai quattro quotidiani locali con allegata la fotografia che vedete riprodotta. __________________
C’è stata anche la “Giornata del Decoro”, ma, evidentemente, molti veneziani non ne hanno compreso il significato.
Mi riferisco al costume di molti concittadini nel depositare i rifiuti, sia il cosiddetto “umido”, sia la carta, come anche la plastica ed il vetro. Infatti, mi sembra che più di qualcuno concepisca come “decoro” solo quello davanti alla propria abitazione e fuori dalla propria porta; perciò queste persone portano anche cinquanta o cento metri più lontano i propri rifiuti e, ovviamente, nei pressi di un’abitazione di qualcun altro.
La circolare della Vesta (Informa Vesta) precisa che la raccolta differenziata è “porta a porta” (mi raccomando, non confondetelo con il “salotto di Bruno Vespa”) e che i rifiuti, oltre alla consegna diretta al netturbino, “ … in base ai regolamenti comunali della città di Venezia, possono essere posizionati, tra le 6 e le 8 del mattino, a ridosso della porta della propria abitazione.” Per porta della propria abitazione deve intendersi anche quella degli esercizi commerciali; invece, in Rio Marin, alcuni negozianti esigono il decoro davanti al proprio locale, fregandosene del decoro degli altri luoghi, in particolare della fondamenta che conduce ai Palazzi Cappello e Gradenigo, come dimostra la fotografia, scattata oggi 4.5 alle 12,30, che allego.
Forse, considerato che molti veneziani non capiscono l’italiano, sarà il caso che l’Assessore Salvadori faccia stampare i manifesti, oltre che nelle varie lingue straniere, anche in veneziano!
_________________
7.5.2007 - Pubblicata su "il Venezia" senza la foto ed omettendo l'indicazione della zona.
12.5.2007 - Pubblicata su "LA NUOVA VENEZIA" senza la foto ed omettendo l'indicazione della zona.
C’è stata anche la “Giornata del Decoro”, ma, evidentemente, molti veneziani non ne hanno compreso il significato.
Mi riferisco al costume di molti concittadini nel depositare i rifiuti, sia il cosiddetto “umido”, sia la carta, come anche la plastica ed il vetro. Infatti, mi sembra che più di qualcuno concepisca come “decoro” solo quello davanti alla propria abitazione e fuori dalla propria porta; perciò queste persone portano anche cinquanta o cento metri più lontano i propri rifiuti e, ovviamente, nei pressi di un’abitazione di qualcun altro.
La circolare della Vesta (Informa Vesta) precisa che la raccolta differenziata è “porta a porta” (mi raccomando, non confondetelo con il “salotto di Bruno Vespa”) e che i rifiuti, oltre alla consegna diretta al netturbino, “ … in base ai regolamenti comunali della città di Venezia, possono essere posizionati, tra le 6 e le 8 del mattino, a ridosso della porta della propria abitazione.” Per porta della propria abitazione deve intendersi anche quella degli esercizi commerciali; invece, in Rio Marin, alcuni negozianti esigono il decoro davanti al proprio locale, fregandosene del decoro degli altri luoghi, in particolare della fondamenta che conduce ai Palazzi Cappello e Gradenigo, come dimostra la fotografia, scattata oggi 4.5 alle 12,30, che allego.
Forse, considerato che molti veneziani non capiscono l’italiano, sarà il caso che l’Assessore Salvadori faccia stampare i manifesti, oltre che nelle varie lingue straniere, anche in veneziano!
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7.5.2007 - Pubblicata su "il Venezia" senza la foto ed omettendo l'indicazione della zona.
12.5.2007 - Pubblicata su "LA NUOVA VENEZIA" senza la foto ed omettendo l'indicazione della zona.
giovedì 3 maggio 2007
Terrorismo si? Terrorismo no?
Terrorismo si? Terrorismo no? L’opinione dell’”Osservatore Romano”, che ha parlato di “terrorismo” in riferimento alle parole ed ai giudizi espressi da Rivera, dal palco del concerto del 1° maggio, divide le opinioni dette dai politici, dai sindacalisti e dal “popolo” dei “blog”.
Voglio dire la mia, quindi, su questo argomento: non è necessario arrivare al “morto ammazzato” o al “gambizzato” per parlare di terrorismo? Come già scrissi in un precedente “post”, ( Scritte sui muri: "corsi e ricorsi storici") il momento assomiglia molto a quello in cui nacquero le BR, quando si dovette arrivare alla morte di Guido Rossa, perché le sinistre di allora riconoscessero il fenomeno. Perciò non bisogna sottovalutare il pericolo che qualche stupido, fomentato da parole espresse dall’”ultimo arrivato”, Rivera, ma anche da vari laicisti intellettualoidi e, perché no?, anche da esponenti la sinistra radicale europea, voglia emulare i terroristi del passato.
Venendo all’ultimo episodio del 1° maggio, un emulo del “maître a penser” P.Baudo, ha voluto profittare del microfono che aveva in mano e divulgare al “prossimo”, sia i 400.000 di Piazza San Giovanni, sia i telespettatori, il suo “pensiero”. A Venezia si dice: “Prima de parlar, tasi”; evidentemente, essendo un “trasteverino”, non conosceva questo proverbio. Si dice anche “cavighe el goto” a chi “ … pissa fora dal bocal”, che, tradotto, significa “ … levare il bicchiere (di vino) a chi, per aver bevuto troppo, dice delle stupidaggini”. Per me quelle parole dette da Rivera sono state veramente delle stupidaggini, mentre per altri sono la “verità”. Ognuno è libero di pensare come vuole, però non era né il momento, né il luogo, di esternare il proprio “pensiero”, sempre che il soggetto sia da catalogare come “pensatore”!
“Sparare contro la chiesa cattolica è oggi … uno sport”. Uno sport molto in voga, direi, soprattutto da parte di “laicisti” (da non confondere con laici), di pseudo intellettuali radical-chic, di atei, di agnostici e, soprattutto di ignoranti. Questi ultimi poi, come oche starnazzanti, ripetono sempre le stesse cose nei vari messaggi e/o commenti che si trovano, quasi fotocopie, sui più diversi “blog” ed anche sui commenti all’articolo che ieri è apparso su Repubblica.it.
Riassumendo, le tesi esposte sono queste: “Bagnasco e la chiesa sono omofobi”, “… Rivera ha espresso il proprio pensiero ed ognuno è libero di esprimersi come vuole perché siamo in democrazia …”, “ … le opinioni della chiesa, in questa vicenda, sono contrarie … alla democrazia”, ecc. ecc., sempre su queste lunghezze d’onda.
Ed ora mi attendo gli strali dei laicisti “pseudo-intellettuali-radical-chic”!!!
Li pubblicherò tutti, sempre che non siano anonimi, come la maggior parte di quei messaggi e/o commenti ai quali accennavo più sopra. Non hanno neppure il coraggio delle proprie idee!
Voglio dire la mia, quindi, su questo argomento: non è necessario arrivare al “morto ammazzato” o al “gambizzato” per parlare di terrorismo? Come già scrissi in un precedente “post”, ( Scritte sui muri: "corsi e ricorsi storici") il momento assomiglia molto a quello in cui nacquero le BR, quando si dovette arrivare alla morte di Guido Rossa, perché le sinistre di allora riconoscessero il fenomeno. Perciò non bisogna sottovalutare il pericolo che qualche stupido, fomentato da parole espresse dall’”ultimo arrivato”, Rivera, ma anche da vari laicisti intellettualoidi e, perché no?, anche da esponenti la sinistra radicale europea, voglia emulare i terroristi del passato.
Venendo all’ultimo episodio del 1° maggio, un emulo del “maître a penser” P.Baudo, ha voluto profittare del microfono che aveva in mano e divulgare al “prossimo”, sia i 400.000 di Piazza San Giovanni, sia i telespettatori, il suo “pensiero”. A Venezia si dice: “Prima de parlar, tasi”; evidentemente, essendo un “trasteverino”, non conosceva questo proverbio. Si dice anche “cavighe el goto” a chi “ … pissa fora dal bocal”, che, tradotto, significa “ … levare il bicchiere (di vino) a chi, per aver bevuto troppo, dice delle stupidaggini”. Per me quelle parole dette da Rivera sono state veramente delle stupidaggini, mentre per altri sono la “verità”. Ognuno è libero di pensare come vuole, però non era né il momento, né il luogo, di esternare il proprio “pensiero”, sempre che il soggetto sia da catalogare come “pensatore”!
“Sparare contro la chiesa cattolica è oggi … uno sport”. Uno sport molto in voga, direi, soprattutto da parte di “laicisti” (da non confondere con laici), di pseudo intellettuali radical-chic, di atei, di agnostici e, soprattutto di ignoranti. Questi ultimi poi, come oche starnazzanti, ripetono sempre le stesse cose nei vari messaggi e/o commenti che si trovano, quasi fotocopie, sui più diversi “blog” ed anche sui commenti all’articolo che ieri è apparso su Repubblica.it.
Riassumendo, le tesi esposte sono queste: “Bagnasco e la chiesa sono omofobi”, “… Rivera ha espresso il proprio pensiero ed ognuno è libero di esprimersi come vuole perché siamo in democrazia …”, “ … le opinioni della chiesa, in questa vicenda, sono contrarie … alla democrazia”, ecc. ecc., sempre su queste lunghezze d’onda.
Ed ora mi attendo gli strali dei laicisti “pseudo-intellettuali-radical-chic”!!!
Li pubblicherò tutti, sempre che non siano anonimi, come la maggior parte di quei messaggi e/o commenti ai quali accennavo più sopra. Non hanno neppure il coraggio delle proprie idee!
martedì 1 maggio 2007
Saranno veri "co.pro." i contratti di questo tipo?
“Da oggi martedì 1° maggio, ispettori del lavoro a caccia di collaborazioni fittizie.”.Inizia così un articolo letto oggi su Il Gazzettino (clicca qui).
Ve li figurate i datori di lavoro che hanno goduto di un “tregua” ed ora si trovano a dover regolarizzare una miriade di contratti (i vecchi co.co.co) che hanno subito la modifica solo nel nome (sono diventati co.pro). Erano, e sono, contratti con i quali il datore di lavoro “risparmia” e non ha problemi a non riassumere (in parole povere “a licenziare”). Pensate che trovandosi, di punto in bianco, a dover regolarizzare questi “contratti falsi”, i nostri italici datori di lavoro non si rivolgeranno alle istituzioni ponendo mille difficoltà che “ … non permetteranno una crescita della nostra economia … “? Spero di sbagliarmi, ma, vedrete, non sarà così. Forse qualche sfortunato si beccherà delle sanzioni in fase iniziale e poi si tornerà alla situazione in essere fino al 30 aprile.
Io proprio non ci credo e vedrete che i co.co.co. continueranno ed i co.pro faranno sempre i lavoratori dipendenti figurando collaboratori.
Ve li figurate i datori di lavoro che hanno goduto di un “tregua” ed ora si trovano a dover regolarizzare una miriade di contratti (i vecchi co.co.co) che hanno subito la modifica solo nel nome (sono diventati co.pro). Erano, e sono, contratti con i quali il datore di lavoro “risparmia” e non ha problemi a non riassumere (in parole povere “a licenziare”). Pensate che trovandosi, di punto in bianco, a dover regolarizzare questi “contratti falsi”, i nostri italici datori di lavoro non si rivolgeranno alle istituzioni ponendo mille difficoltà che “ … non permetteranno una crescita della nostra economia … “? Spero di sbagliarmi, ma, vedrete, non sarà così. Forse qualche sfortunato si beccherà delle sanzioni in fase iniziale e poi si tornerà alla situazione in essere fino al 30 aprile.
Io proprio non ci credo e vedrete che i co.co.co. continueranno ed i co.pro faranno sempre i lavoratori dipendenti figurando collaboratori.
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