martedì 22 maggio 2007

Le “favelas” brasiliane … viste dall’Unità

Vi propongo, in questo post, un articolo tratto da “Unità on line” del 21 maggio. L’autore è Roberto Monteforte ed il titolo è: “Nella favela dimenticata da Ratzinger”.

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«Peccato che Papa Benedetto XVI non sia venuto da noi. Avrebbe visto cosa sia in realtà il Brasile». Un commento secco. Di quelli che marcano la distanza tra mondi che non comunicano. Parla Luiz Texeira, sulla cinquantina, di origine portoghese, viso incorniciato da una barba sale pepe. Cattolico, è uno dei fondatori del Goti (Grupo de Organizaçao dos Trabalhadores Indipendentes) che dal 1986 è impegnato nella favela di Pedreira, periferia sud di San Paolo. Il Papa non è venuto? Non ne fa una malattia, Luiz. Lui a Pedreira è di casa. Questa è terra dura. Terra di violenza e disperazione.
I senza diritto. La favela si inerpica lungo la collina e si estende, senza fine. Una via «principale» e poi un dedalo infinito, tortuoso e inestricabile di vicoli stretti. Case a migliaia, tirate su mattone su mattone. Zona «off limit» per tutti. Questa è territorio del «Primero Comando Capital», la sigla criminale che ha tenuto in scacco l’intera città di San Paolo. Lì non si entra. Ma i volontari e i missionari sono rispettati. «E dire che sulle cartine geografiche questa è una valle verde...» commenta Ademar Degasperi, anche lui uno dei volontari. È proprio qui che vive «il popolo in più», gli «impoveriti», i senza diritto. Sono ben quattro milioni i «nordestini», che espulsi dalle campagne del Nord est sono approdati a San Paolo. Sono gli abitanti delle favelas. Qui non ci sono vie o indirizzi. «Favela vuole dire fai da solo» spiega il missionario domenicano padre Mariano Foralosso. «Eppure - aggiunge - vi sono gocce di speranza. Sono gocce nell’oceano, ma l’oceano non è fatto di gocce?». Cita le parole di padre Giorgio Callegari, anche lui domenicano che a questa gente ha dedicato la vita che per questo, alla fine degli anni ‘60, è stato incarcerato, torturato e esiliato durante il regime militare. Alla fine, tornato clandestinamente proprio nelle favelas, ha fondato a Peruibe, vicino al mare, la «Colonia Venezia» e a Pedreira il «centro Santa Terezinha» e la «Scuola Esperanza». È scomparso nel 2003, ma la sua attività continua grazie ai volontari del Cepe (Centro Ecuménico de Publicações e Estudios Frei Tito de Alencar Lima) e del Goti, a padre Mariano e al sostegno, anche dall’Italia, di tanti amici. Sono strutture che oggi accolgono complessivamente 1.600 «meninos de rua» e che hanno il loro appoggio logistico in «Colonia Venezia» dove i ragazzi che vengono da questi inferni, fanno lì a turno il campo estivo di una settimana.
«È un impegno che nasce dalla presa di coscienza maturata nel lavoro di approfondimento della comunità ecclesiale di base» ricorda un altro volontario, Roberto De Costa. «Era un gruppo di giovani della comunità - aggiunge Luiz - tutti lavoratori in diversi settori, che si sono organizzati per fare un cammino insieme e per dare formazione sindacale e politica ai lavoratori. Aveva l’obiettivo di organizzare anche le lotte sociali sui problemi della favela». E le lotte ci sono state. È un racconto collettivo quello di Carlos Roberto De Costa, di Luiz Teixeira, di Ademar Degasperi e Leda De Alcontera, sua moglie. Indicano la collina che sovrasta questo sconfinato mare color mattone.
«Solo 22 anni fa era una cava, una palude. Ora è la nostra collina. È il risultato dei detriti delle costruzioni accumulati nel tempo. Si è lottato. Volevano scaricare lì i rifiuti tossici dell’ospedale. Sotto ci sono le falde acquifere che alimentano l’acquedotto di san Paolo. Si è lottato per la salute come per ogni cosa, per la luce, per l’autobus, per la strada principale...». E la Chiesa. «Un tempo ci diceva che era peccato scioperare, poi che lo era non scioperare. Ora ci dice di restare in sacrestia» commenta critico Carlos Roberto. Ma loro hanno i loro riferimenti.
Alla favela ci guida padre Mariano Foralosso, da 20 anni in Brasile. È stato amico e confratello di «Frei Giorgio», ne ha raccolto l’eredità. Il viaggio è lungo. In metropolitana attraversiamo la megalopoli di San Paolo: linea Azzurra, destinazione «Jabaquara», il capolinea. Poi, altri chilometri macinati su di un vecchio pulmino Wolkswagen. Il paesaggio si trasforma. Sempre più la periferia si fa favela. Scompaiono lampioni e marciapiedi. Solo mattoni. Raggiungiamo il «Centro Terenzinha». Si supera un cancello e hai di fronte una realtà sorprendente. Troviamo biblioteche, aule curate, cucina e refettorio e una sessantina di bambini sorridenti sottratti alla strada e alle sue leggi violente. Lavorano a gruppi, in base all’età. C’è chi «ricama» stoffe, chi dipinge sotto la guida di alcune assistenti. Il clima è allegro, ma di impegno. I più grandi realizzano cuscini dipinti a mano, sciarpe di lana e altri prodotti di artigianato. «Li aiutiamo ad imparare un mestiere, ma ancora più a maturare un’autostima di sé, a mostrare che è possibile realizzare qualcosa, a dare loro speranza» spiega Leda, che fa gli onori di casa. È lei ad occuparsi del Progetto adozioni a distanza, la fonte principale di finanziamento per l’attività dei nove «centri» che fanno riferimento al Cepe e al Goti. Sono circa ottocento le «adozioni» a distanza. Per gli «ospiti», tutti in età scolare, divisi in gruppi, un pasto assicurato, sostegno scolastico e un progetto educativo preciso: aiutarli a diventare cittadini. «Vivere qui significa essere esclusi da tutto. È quasi impossibile trovare lavoro per chi è di Pedreira». C’è anche un piccolo spiazzo in cemento dove i bambini giocano a pallone. «È il loro Maracanà» afferma scherzosa Leda.
A pochi metri vi è la «scuola Esperanza»: è per i più grandi. Da poco inaugurata è ancora intonacata di fresco. Si avviano i giovani al lavoro. Gli si insegna un mestiere: fornaio, pasticciere, elettricista, lavorare al telaio i tessuti e la lana, realizzare attività di artigianato. La vita può cambiare. I ragazzi hanno ambizioni precise: ingegnere chimico, programmatore di computer, elettricista. Al primo posto per tutti «poter aiutare le famiglie». «Quel centro - precisa padre Mariano - è intitolato a Frei Tito De Alencar Lima, frate domenicano come padre Giorgio, ha dedicato la sua vita alla causa dei poveri e per questo alla fine degli anni ‘60 venne arrestato, torturato ed esiliato dal regime dei generali. È morto martire». Anche qui Cepe e Goti lavorano in stretta collaborazione. È un modo concreto per combattere l’emarginazione e l’esclusione di un popolo. «Come possiamo predicare il Vangelo a gente che muore di fame? I cui diritti non solo umani, ma addirittura animali ed elementari, come quelli di potersi coprire, sfamare, riprodurre in modo degno, sono negati? È il popolo negato. È il popolo in più» commenta il padre domenicano.
Non lo preoccupa la serrata concorrenza delle «sette» neo pentecostali. Se la Chiesa di Roma è lontana, qui vi è una Chiesa che si compromette. La Teologia della Liberazione è una pratica concreta e radicata, di decine di migliaia di comunità ecclesiali di base impegnate a favore dell’uomo. Lo si è visto anche alla favela di Pereida. Un mondo, quella della povertà, che Papa Raztinger, non ha neanche sfiorato.

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Il “pezzo” in questione parla di alcune realtà e persone che conosco in quanto, proprio qualche mese fa, sono andato da quelle parti e mi sono recato anche in una di queste strutture, la Colonia Venezia di Peruibe, citata anche nell’articolo.

Di questa mia esperienza ho scritto anche in questo blog

Quello che mi ha colpito in questo articolo è stata la supponenza dell’autore. Infatti, fin dal titolo, si capisce come lo scopo non sia quello di raccontare ai lettori le realtà visitate a San Paolo e nelle sue vicinanze, realtà shockanti, soprattutto per chi le affronta la prima volta. Lo scopo è, invece, quello di un ulteriore attacco al Papa e, ovviamente, all’istituzione che rappresenta, dimenticandosi che chi opera in Brasile, in quelle realtà, fa parte proprio di questa istituzione. Chi alcuni decenni fa è stato arrestato, torturato ed è anche morto, faceva parte di questa istituzione!
«Peccato che Papa Benedetto XVI non sia venuto da noi. Avrebbe visto cosa sia in realtà il Brasile». Con questa frase di un sindacalista cattolico, frase che esprime un desiderio più che legittimo da parte di chi dedica la sua vita agli altri, il giornalista deduce ben altre cose :” … Un commento secco. Di quelli che marcano la distanza tra mondi che non comunicano. … “.
Ma chi è Monteforte che si arroga il diritto di giudicare l’itinerario di Benedetto XVI in Brasile?
Ad una frase di Padre Mariano «Come possiamo predicare il Vangelo a gente che muore di fame? I cui diritti non solo umani, ma addirittura animali ed elementari, come quelli di potersi coprire, sfamare, riprodurre in modo degno, sono negati? È il popolo negato. È il popolo in più» è sempre il Monteforte che ribadisce “ … Se la Chiesa di Roma è lontana, qui vi è una Chiesa che si compromette. …“.
Ma chi commenta in questo modo poi sarà di quelli senz’altro contrari all’otto per mille, il cui ricavato è destinato anche a queste necessità.

E tutte le associazioni che in Italia si danno da fare per sostenere queste realtà, pur essendo associazioni laiche, non aderiscono certamente ad alcun partito politico e sono, invece, vicine a quella chiesa cattolica romana tanto vituperata!

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Complimenti per il tuo lucidissimo e preciso commento al tendenzioso articolo dell'Unità, che ovviamente ha manipolato le parole di quella persona, attribuendo loro un significato che non avevano.
In effetti, la prossima volta in cui il Papa farà un viaggio all'estero chiederemo che sia un giornalista di quel quotidiano a tracciarne l'itinerario, certi che lo farà mosso dall'enorme amore verso i poveri.
Ma, sempre per delineare l'itinerario papale, occorrerà anche l'ottima collaborazione di Pippo Baudo! A quando i consigli al Papa da parte di Simona Ventura? :D

Sergio ha detto...

COMMENTO AGGIUNTIVO AL POST

Lo sport del momento: il tiro a segno!

Molti anni fa, nelle diverse città c’era un periodo, più o meno lungo, durante il quale, in certe zone, s’installavano le giostre.
Uno dei divertimenti che andavano per la maggiore, soprattutto fra i giovanotti, era il “tiro a segno”. All’inizio si trattava di fucili ad aria compressa che sparavano i “piombini” su centri di carta; poi vennero i primi marchingegni “elettronici” per mezzo dei quali si sparava con dei fucili che emettevano un raggio, che non ricordo bene di quale tipo fosse. Ovviamente il centro non era più una serie di cerchi concentrici su carta, ma si andava addirittura a caccia, una caccia virtuale, dove la preda era un orso che zigzagava fra gli alberi di una foresta, anche questa virtuale. Se l’orso veniva colpito in una determinata parte, sul fianco, allora si alzava, si poneva di fronte ed evidenziava un altro bersaglio, al cuore. Alzandosi emetteva un verso, una specie di “uhuu”!
Quelli più bravi, non appena l’orso mostrava il torace e prima che riprendesse la posizione abituale, sparavano in continuazione al bersaglio; ogni volta che questo veniva centrato, l’orso emetteva in continuazione il lamentoso “uhuu” e, dopo una certo numero di centri, cadeva abbattuto. Il tiratore, di solito, vinceva un’altra serie di tiri.
Dietro il tiratore c’era sempre una cerchia di amici desiderosi, a loro volta, di cimentarsi nel tiro all’orso.

Se fossi un bravo disegnatore, ma, purtroppo, non lo sono affatto, realizzerei la seguente “vignetta”: al posto dell’orso ci metterei Benedetto XVI, ma anche Bagnasco o Betori, mentre fra i tiratori e gli spettatori, nonché incitatori, una serie di ragazzini con le facce di Pannella, Capezzone, Boselli, Grillini, ma anche Santoro e, perché no, Pippo Baudo e tanti altri (vedete un po’ voi chi mettere).
Ad ogni bersaglio centrato, invece di “uhuu”, un bel “allelujaaa”!
Terminerei con l’insegna del baraccone con la scritta “Sport Nazionale” e ci aggiungerei una procace addetta, di solito avevano un accento emiliano-romagnolo, con il “fumetto”: “Venite a sparare! Uno sport sano e di … moda!”.

Anonimo ha detto...

Grazie di aver pubbliacato l'articolo dell'Unità sulle favelas. Visto che conosciamo quei luoghi e quelle persone, sappiamo che quell'articoloavrebbero potuto scriverlo anche altri giornali.

Pier Paolo

Sergio ha detto...

x Pier Paolo: E' vero che potevano scriverlo altri giornali e, qualcuno avrebbe messi, senz'altro, meno faziosità!!!

Sergio ha detto...

Un altro blogger, Minimale, (lo trovate fra i link a fianco) ha volute commentare sul suo blog questo mio post. Alle sue argomentazioni io ho risposto come segue:

"Non mi sono arrabbiato per l’articolo dell’Unità, anche perché non sono tipo di arrabbiarsi tanto facilmente.
Nel mio post, al quale avresti potuto fare il link, giusto per imparzialità (lo fai anche con il “cucciolo Sofri), ho voluto solo mettere in evidenza l’opportunismo del giornalista, non di matrice cattolica, nell’estrapolare delle frasi di cattolici laici e sacerdoti, per attaccare, come di moda in questo periodo, il papa e l’istituzione che rappresenta.
Di “Teologia della Liberazione”, di “Massoneria” e “Opus Dei” io non ho mai parlato, anche perché non mi sento all’altezza.
Nelle “siffatte schiere”, come le chiami tu, non si trovano “quattro missionari volonterosi”, ma molti di più e non sono “eroi”, ma solo uomini, e donne, di buona volontà!
Gli “eroi” ci sono stati e sono quelli che hanno sofferto il carcere, la tortura e che, magari, sono morti per le loro idee! E non erano dei “fichetti”, come non lo sono coloro che operano in queste organizzazione attualmente."

P.S. - Mi è sembrato opportuno inserire anche qui questo commento.