Con questo post chiudo la “stagione”! Vado in ferie, lunghe ferie, durante le quali non sarò in rete. Arrivederci a Settembre e buone vacanze a tutti!
(So che sentirete la mancanza! Eh, eh, eh!!!)
Da poche settimane, ai Giardini di Castello, a Venezia, è aperta la “Biennale d’Arte contemporanea”. Sulla stampa, non solo locale, ma anche nazionale ed internazionale, avrete potuto, sempre che v’interessi, aggiornarvi su quello che viene messo in mostra.
Vi consiglio di leggere anche questo articolo (clicca qui), apparso su “Gente Veneta” del 21 giugno u.s.
L’evento artistico, che si ripete ogni due anni nella mia città, mi ha fatto ricordare quando, parecchio tempo addietro, anch’io m’interessavo, per pura mia curiosità, di arte figurativa, in particolare di pittura, non perché dipingessi, ma perché ne avevo voglia. Non che ora sia caduto questo interesse, ma direi che è venuto meno l’interesse per la “Biennale” e per l’arte moderna in generale.
Ero ancora un ragazzino, tredici anni, quando, con i miei genitori, andai, per la prima volta a visitare questa mostra. Due anni dopo, anche perché abitavo proprio nei pressi, e, ripeto, per mia curiosità, mi feci l’abbonamento (dieci ingressi) e, così, potei visitarla in lungo ed in largo soffermandomi dove mi pareva fosse interessante. Avevo anche il catalogo (li conservo ancora quelli delle “Biennali” visitate), un “malloppone” di circa 600 pagine che, ovviamente, portavo con me e che leggevo seduto su qualche panchina all’uscita dei vari padiglioni.
Inoltre, proprio per non “vedere” e basta i vari pezzi, le varie opere d’arte, mi ero preparato a casa: avevo preso dei libri, su indicazione di un conoscente, collezionista e, a tempo perso, anche “mercante d’arte” e lo stesso mi aveva dato qualche spiegazione, soprattutto su come osservare.
Andai a visitare questa mostra in più edizioni, sempre con lo stesso spirito, finché una volta dissi a me stesso:”Basta!”.
Era evidente che mi sentivo preso in giro. Più di qualche volta mi ero trovato davanti, per esempio, ad un “quadro” (virgolettato appositamente) di Fontana, quello che faceva spuntare dei chiodi da un sacco di juta o che, sempre un sacco, lo presentava tagliato, “sbregà” si dice in veneziano. Ma anche davanti ai quadri di Santomaso, che disegnava e dipingeva quelli che tutti chiamavano “ferri da gondola”, ma che non lo erano assolutamente; e da anni presentava quello e solo quello. Oppure i quadri di, … non mi ricordo più chi fosse, che presentava tele bianche con dei buchi di varie dimensioni. Erano “artisti” che andavano per la maggiore! Erano “artisti” sui quali i critici consumavano quantità enormi d’inchiostro. Io leggevo tutte le critiche.
Avete mai letto qualche critica sia di mostre d’arte come di spettacoli musicali? Siate sinceri e ditemi se, veramente, avete capito tutto quello che il critico ha scritto. Si sa, i critici, che usano “parolone”, che creano tanti neologismi, che usano tanto parlare di “ismi”, scrivono solo per loro; si scrivono addosso! Però scrivono anche per chi li paga, l’autore od il gallerista interessato; tante righe in proporzione a quanto sono pagati!
Ritorno a vari Fontana, Santomaso ed altri, che avevo lasciato più sopra. Sarò stato, e magari lo sono ancora, un’ignorante, uno che non capiva niente, oppure uno che non voleva seguire le “mode”, però, davanti a quegli oggetti, che qualcuno chiamava quadri, magari con titoli altisonanti (qualcuno, più modestamente ed onestamente, li intitolava solo “Composizione n. …”) io, sinceramente mi trovavo a disagio, mi sentivo preso per i fondelli!
Andare controcorrente voleva dire essere considerati dei trogloditi ed allora tutti, anche chi aveva voce in capitolo e poteva e doveva farlo, non parlava. Se qualcuno avesse biasimato quelle opere ed i loro autori sarebbe stato considerato un retrogrado, uno che non capiva “la libertà di espressione dell’artista”. La parola “libertà” ricorreva spesso fra questi signori che, sempre nel nome della libertà, non riconoscevano come quella (libertà) dell’artista limitava la mia libertà ed offendeva il mio senso estetico.
Qualcuno, per buttare tutto in “politica”, dirà che si trattava della “cultura della sinistra imperante allora, ed ora, in tutti i campi”. Ma mi faccia il piacere!!!
Poi, nelle “biennali” successive, siamo andati di male in peggio: mi ricordo, anni fa, di un gregge di pecore dipinto di blu: una puzza emanava da quell’ovile, ma era una puzza … d’artista. E poi, solo per ricordarne alcune: l’esposizione di un povero “handicappato” vero, una “cacca d’artista”, una mucca sezionata e immersa nella formalina (almeno questa non puzzava).
Basta! Mi sono veramente stufato! Non ho più frequentato i “Giardini della Biennale” e, se tanto mi dà tanto, anche quest’anno, visto di cosa si tratta, me ne terrò lontano.
Basta! Sono stufo di farmi prendere in giro!
Ma tanto, anche se non si va alla mostra, ti trovi attorniato da varie opere anche in giro per la città, sia della Biennale e sia di artisti non ammessi che, chissà come, riescono a fare appendere, all’esterno dei terrazzi di qualche albergo, degli orrendi coccodrilli di plastica stampata, di quattro metri circa, color fucsia; dicono che si tratta di plastica riciclata ed allora il messaggio di questi appartenenti alla “crack-art” (così si chiama dal metodo industriale, il “cracking”, mediante il quale si ottiene la plastica) è quello di invitare a riciclare i rifiuti. Devono spiegarlo, però, e solo quando, per fortuna, qualcuno (la Soprintendenza) ha deciso di opporsi.
BASTA!!!
Di tutto un po'. In questo "blog" troverete "sfoghi" e pensieri, lettere inviate ai giornali e, forse, non pubblicate. Parlerò di Venezia, la mia Città, di quanto c'è di buono e di meno buono in essa, ma non mancheranno neppure argomenti di politica e di quello che capita nel mondo. Insomma ... un po' di tutto!!!
sabato 23 giugno 2007
giovedì 21 giugno 2007
Gondolieri, reddito medio 21 mila euro.
Mi ricollego al post del 15 giugno (NON CI STO), per aggiornarvi su alcuni dati di quello che, per me, è uno scandalo!
Vi riporto solo il titolo de "La Nuova Venezia" di oggi:
AUTONOMI, LE CIFRE DELL'EVASIONE
In Veneto non in regola il 46%. Gondolieri, reddito medio 21 mila euro.
Mancavano i gondolieri ... "pasta e oca"!!!
Sono necessari altri commenti?
Vi riporto solo il titolo de "La Nuova Venezia" di oggi:
AUTONOMI, LE CIFRE DELL'EVASIONE
In Veneto non in regola il 46%. Gondolieri, reddito medio 21 mila euro.
Mancavano i gondolieri ... "pasta e oca"!!!
Sono necessari altri commenti?
martedì 19 giugno 2007
La canzone di Adam
Nel post del 5 giugno, dal titolo "Coralità “alpina”: cos’è?", condividevo l’opinione di altri esponenti del mondo corale che affermavano che è importante cantare non solo i “canti alpini”, ma tutti i canti che piacciono ai componenti il coro. C’era chi, rispondendo a delle critiche di stampo “razzista”, affermava che, se bella e se piace, si può cantare anche musica araba.
Navigando in internet, mi sono soffermato sulla sottonotata notizia del 18 giugno, pubblicata sul sito di “la repubblica.it” alla quale è collegato un video di alcune foto del Darfur, la tormentata regione del Sudan, con il sonoro del canto di un bambino.
I versi della canzone, chiamata “La canzone di Adam”, sono questi:
Per amore della nostra madre / Studiamo
Per amore del nostro padre / Studiamo
Per amore della nostra sorella / Studiamo
Per amore del nostro fratello / Studiamo
Anche se le nostre case sono state bruciate
Per questo dobbiamo studiare
Anche se le nostre case sono state bruciate
Per questo dobbiamo studiare
I nostri villaggi sono ormai vuoti
Per questo dobbiamo studiare
I nostri villaggi sono ormai vuoti
Per questo dobbiamo studiare
Per amore della nostra madre / Studiamo
Per amore del nostro padre / Studiamo
Dobbiamo far sentire la nostra voce / Per poter imparare
Dobbiamo far sentire la nostra voce / Per poter imparare
Per amore del Darfur
Per amore del Darfur
Studiamo
Per amore della nostra madre / Studiamo
Per amore del nostro padre / Studiamo
Anche se la scuola è stata distrutta / impariamo
Anche se la scuola è stata distrutta / Impariamo
Preghiamo che i proiettili
Diventino gessetti
E studiamo
Per amore del Sudan / Studiamo
Per amore del Sudan / Studiamo
Per amore del Darfur / Studiamo
Per amore del Darfur / Studiamo
Per amore della nostra madre / Studiamo
Per amore del nostro padre / Studiamo
Ed ecco il testo dell’articolo che accompagna questo video:
"Adam è un bambino del Darfur di 12 anni. I ricordi di un'infanzia segnata da guerre e fame racchiuse nelle parole e nella musica di questa canzone
Da quando il conflitto ha distrutto il suo villaggio si è rifugiato nel campo di Muhajariya. Nonostante la grande voglia di imparare ha frequentato la scuola solo sporadicamente a causa della guerra e dei continui spostamenti. Questa canzone è stata registrata da una volontaria di Medici Senza Frontiere durante un incontro di educazione alla salute: Adam chiese alla ragazza di poter cantare e, una volta finita la sua canzone, si è seduto con la testa tra le gambe incurante degli applausi."
Allora mi domando, ma, penso, anche altri si pongano la stessa domanda: “Dobbiamo lasciar perdere questo canto perché non è un canto nostro, un canto alpino?”
“La canzone di Adam” non è un canto alpino!
Chi desiderasse ascoltare Adam, clicchi qui.
Navigando in internet, mi sono soffermato sulla sottonotata notizia del 18 giugno, pubblicata sul sito di “la repubblica.it” alla quale è collegato un video di alcune foto del Darfur, la tormentata regione del Sudan, con il sonoro del canto di un bambino.
I versi della canzone, chiamata “La canzone di Adam”, sono questi:
Per amore della nostra madre / Studiamo
Per amore del nostro padre / Studiamo
Per amore della nostra sorella / Studiamo
Per amore del nostro fratello / Studiamo
Anche se le nostre case sono state bruciate
Per questo dobbiamo studiare
Anche se le nostre case sono state bruciate
Per questo dobbiamo studiare
I nostri villaggi sono ormai vuoti
Per questo dobbiamo studiare
I nostri villaggi sono ormai vuoti
Per questo dobbiamo studiare
Per amore della nostra madre / Studiamo
Per amore del nostro padre / Studiamo
Dobbiamo far sentire la nostra voce / Per poter imparare
Dobbiamo far sentire la nostra voce / Per poter imparare
Per amore del Darfur
Per amore del Darfur
Studiamo
Per amore della nostra madre / Studiamo
Per amore del nostro padre / Studiamo
Anche se la scuola è stata distrutta / impariamo
Anche se la scuola è stata distrutta / Impariamo
Preghiamo che i proiettili
Diventino gessetti
E studiamo
Per amore del Sudan / Studiamo
Per amore del Sudan / Studiamo
Per amore del Darfur / Studiamo
Per amore del Darfur / Studiamo
Per amore della nostra madre / Studiamo
Per amore del nostro padre / Studiamo
Ed ecco il testo dell’articolo che accompagna questo video:
"Adam è un bambino del Darfur di 12 anni. I ricordi di un'infanzia segnata da guerre e fame racchiuse nelle parole e nella musica di questa canzone
Da quando il conflitto ha distrutto il suo villaggio si è rifugiato nel campo di Muhajariya. Nonostante la grande voglia di imparare ha frequentato la scuola solo sporadicamente a causa della guerra e dei continui spostamenti. Questa canzone è stata registrata da una volontaria di Medici Senza Frontiere durante un incontro di educazione alla salute: Adam chiese alla ragazza di poter cantare e, una volta finita la sua canzone, si è seduto con la testa tra le gambe incurante degli applausi."
Allora mi domando, ma, penso, anche altri si pongano la stessa domanda: “Dobbiamo lasciar perdere questo canto perché non è un canto nostro, un canto alpino?”
“La canzone di Adam” non è un canto alpino!
Chi desiderasse ascoltare Adam, clicchi qui.
lunedì 18 giugno 2007
Orgoglio ed orgogliosi
L’altro giorno avevo promesso un post “storiella”, quasi una barzelletta.
Prima, però, alcune precisazioni, per inquadrare il periodo nel quale è ambientata questa storiella, che la sentivo raccontare fin da quando ero ragazzino ed era già datata anche allora.
Più o meno siamo all’inizio del XX secolo. Allora la borghesia veneziana, un po’ con la puzza sotto il naso, e la nobiltà, anche se decaduta, usavano trattare dall’alto in basso i poveri cristi che non avevano ascendenze cittadine, sottointeso veneziane. Particolari sfottò erano riservati verso gli abitanti di Chioggia. Il più famoso è quello relativo al “gato de Ciosa” (gatto di Chioggia), come veniva chiamato il piccolo leone marciano posto sulla colonna proprio in riva alla laguna, nella Piazza Vigo, al quale questi perdigiorno veneziani portavano, per dileggio, le lische di pesce per poi scappare, in velocità, con le barche sulle quali erano arrivati e seguiti da arrabbiati chioggiotti.
La storia che segue è ambientata in quel periodo e vuole prendere in giro l’ignoranza del popolo più umile di questa città.
Il tema è l’orgoglio, parola molto in uso in questo periodo nel quale tutti sono orgogliosi di essere qualcuno o di fare qualcosa.
Un borghese veneziano, ben vestito, con tanto di bastone da passeggio, ghette e cappello di paglia, sta camminando attraverso un quartiere popolare di Chioggia, quando vede una giovane donna che, urlando, sta riempiendo di botte un ragazzino. Si accorge che quest’ultimo è veramente soccombente e, allora, decide di intervenire bloccando la mano della donna che sta per dare l’ennesimo schiaffo.
“Si fermi signora! Non vede che sta facendo del male a questo fanciullo” dice il signore.
“Intanto ‘sto fanciullo, come lo ciamé vu –risponde la donna- xé mio fio e mi lo pesto parché se lo merita e parché mi lo vogio tirar su ben.”
“Ma lei lo sta ammazzando di botte, e questo non è un buon metodo educativo. E poi che cosa grave ha fatto per essere trattato in questo modo?”
“Cossa gà fato? El me domanda cossa gà fato? Ve lo digo mi cossa fa ‘sto malignasso!”
“Chissà quale malefatta ha compiuto a quella giovane età?”
“Giusto parché gà ‘na giovine età no’ dovaria comportarse come invesse se comporta! El xé massa orgoglioso!”
“Che male c’è ad essere orgogliosi? Chi è orgoglioso è fiero di sé stesso per qualche cosa che sia motivo di gloria e d'onore.”
“Ma lu el xé massa orgoglioso!”
“Ripeto che, anche se è troppo orgoglioso, non c’è nulla di male. E poi cosa fa di tanto biasimevole per essere castigato in quella maniera?”
“Ve lo digo mi par la seconda ed anca par la tersa volta: el xè massa orgoglioso!”
“Ma, insomma, cosa fa per essere troppo orgoglioso?”
“Ve contento subito: so pare scoresa, ma lu, mancandoghe de rispeto, el vol scoresar più forte!”
Prima, però, alcune precisazioni, per inquadrare il periodo nel quale è ambientata questa storiella, che la sentivo raccontare fin da quando ero ragazzino ed era già datata anche allora.
Più o meno siamo all’inizio del XX secolo. Allora la borghesia veneziana, un po’ con la puzza sotto il naso, e la nobiltà, anche se decaduta, usavano trattare dall’alto in basso i poveri cristi che non avevano ascendenze cittadine, sottointeso veneziane. Particolari sfottò erano riservati verso gli abitanti di Chioggia. Il più famoso è quello relativo al “gato de Ciosa” (gatto di Chioggia), come veniva chiamato il piccolo leone marciano posto sulla colonna proprio in riva alla laguna, nella Piazza Vigo, al quale questi perdigiorno veneziani portavano, per dileggio, le lische di pesce per poi scappare, in velocità, con le barche sulle quali erano arrivati e seguiti da arrabbiati chioggiotti.
La storia che segue è ambientata in quel periodo e vuole prendere in giro l’ignoranza del popolo più umile di questa città.
Il tema è l’orgoglio, parola molto in uso in questo periodo nel quale tutti sono orgogliosi di essere qualcuno o di fare qualcosa.
Un borghese veneziano, ben vestito, con tanto di bastone da passeggio, ghette e cappello di paglia, sta camminando attraverso un quartiere popolare di Chioggia, quando vede una giovane donna che, urlando, sta riempiendo di botte un ragazzino. Si accorge che quest’ultimo è veramente soccombente e, allora, decide di intervenire bloccando la mano della donna che sta per dare l’ennesimo schiaffo.
“Si fermi signora! Non vede che sta facendo del male a questo fanciullo” dice il signore.
“Intanto ‘sto fanciullo, come lo ciamé vu –risponde la donna- xé mio fio e mi lo pesto parché se lo merita e parché mi lo vogio tirar su ben.”
“Ma lei lo sta ammazzando di botte, e questo non è un buon metodo educativo. E poi che cosa grave ha fatto per essere trattato in questo modo?”
“Cossa gà fato? El me domanda cossa gà fato? Ve lo digo mi cossa fa ‘sto malignasso!”
“Chissà quale malefatta ha compiuto a quella giovane età?”
“Giusto parché gà ‘na giovine età no’ dovaria comportarse come invesse se comporta! El xé massa orgoglioso!”
“Che male c’è ad essere orgogliosi? Chi è orgoglioso è fiero di sé stesso per qualche cosa che sia motivo di gloria e d'onore.”
“Ma lu el xé massa orgoglioso!”
“Ripeto che, anche se è troppo orgoglioso, non c’è nulla di male. E poi cosa fa di tanto biasimevole per essere castigato in quella maniera?”
“Ve lo digo mi par la seconda ed anca par la tersa volta: el xè massa orgoglioso!”
“Ma, insomma, cosa fa per essere troppo orgoglioso?”
“Ve contento subito: so pare scoresa, ma lu, mancandoghe de rispeto, el vol scoresar più forte!”
domenica 17 giugno 2007
Si cercano “sponsor” per restauro organo “Callido” in Venezia
Gaetano Antonio Callido (Este 1727 – Venezia 1813) fu un costruttore di organi (organaro) che, in 44 anni di attività, costruì nella Repubblica di Venezia, in altre regioni italiane ed anche a Istanbul, ben 430 organi.
Uno di questi, quello della Chiesa di San Simeone Profeta, in Venezia, necessita di un importante restauro e, per questo motivo, si ricerca uno o più sponsor.
Per maggiori informazioni, clicca qui.
Uno di questi, quello della Chiesa di San Simeone Profeta, in Venezia, necessita di un importante restauro e, per questo motivo, si ricerca uno o più sponsor.
Per maggiori informazioni, clicca qui.
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Venezia
sabato 16 giugno 2007
Nazionalismi e regionalismi
Leggo su Il Gazzettino di oggi un intervento di Renzo Fogliata(*) decisamente contro la “nazione” italiana, o meglio contro tutti gli stati nazionali, che, secondo lui, anche sostenuto da uno scritto di Sergio Romano, non sono mai esistiti, ma sono prevaricazioni, in un determinato periodo storico, d’alcuni gruppi dominanti su tutti gli altri. Per quanto riguarda l’Italia ciò sarebbe accaduto, per colpa dei piemontesi nella seconda metà del XIX secolo.
Anche il tricolore sarebbe un artificio dovuto ad una concessione del giacobinismo francese.
Ovviamente non mi trovo d’accordo con queste teorie e, leggendo sempre l’intervento in questione, trovo che le stesse sono avvalorate da questa frase: “… Insomma, un artificio che, per noi veneti, ha significato l'abdicazione a mille e quattrocento anni di storia di popolo indipendente; un popolo che forgiò persino un proprio diritto, plurisecolare, ostinatamente rifiutando - unico in Europa - l'applicazione del diritto romano. …”
Sottolineo i “ … millequattrocento anni …”! Al massimo solo millecento e solo per Venezia!
Infatti se si guarda un po’ le date, lo stato veneziano (e non veneto) risale al 697 con l’elezione di Paolo Lucio (Paoluccio) Anafesto a doge. Ma forse si trattava di una nomina da parte dell’imperatore bizantino, o del riconoscimento di un suo funzionario (magister militum) ad una carica con maggiori poteri per una determinata zona, sotto la sua influenza, che si limitava alla fascia costiera e non a tutto il Veneto. Il territorio veneto in quel periodo, ed anche dopo, non era indipendente. Si può affermare che con la caduta dell’impero romano le pianure venete furono percorse in continuazione da eserciti “barbari” almeno fino alla fine del primo millennio, anche con stanzialità degli stessi. E furono proprio queste invasioni che portarono alcuni profughi sulle isole della laguna già abitate in gran parte da pescatori e marinai. Quindi non si trattava di territori e popoli indipendenti.
E dopo le invasioni e gli eserciti barbarici ecco spuntare le varie signorie: i Carraresi (già feudatari d’origine longobarda), gli Ezzelini (d’origine tedesca), gli Scaligeri (ghibellini ed alleati dei tedeschi Hoenstaufen). Ed i territori in mano a vescovi in gran parte d’origine germanica? Uno per tutti quello d’Aquileia.
Solo nel XV secolo Venezia sposta i suoi interessi, interessi in gran parte solo commerciali, dal mare alla terraferma. Il Veneto diventa quindi un territorio occupato dai veneziani ed il “dogado” resta solo la città ed una limitatissima fascia costiera. Con la lungimiranza che caratterizzò sempre il modo di agire dei governanti veneziani, questi lasciarono una certa indipendenza alla rappresentanze locali che, però, erano sempre sovrastate da un podestà veneziano.
Quindi contesto i millequattrocento anni di storia di un popolo indipendente!
Relativamente al “diritto romano” rifiutato dal popolo veneto, questo mi sembra un po’ strano anche perché Venezia si è sempre considerata come proseguimento di Roma. E poi, chi erano i fuggiaschi da Aquileia, Altino e Padova, che, “fondarono Venezia"? Non erano forse “cittadini romani”? Ed i contadini che lavoravano sui campi del “graticolato romano” non erano forse ex legionari romani e loro discendenti?
Proprio sul finire delle Repubblica, il governo veneziano decretò, al fine di mantenere l’integrità della laguna e perché la stessa non divenisse mare, la costruzione delle dighe dei “murazzi”:dove posero la scritta “AUSU ROMANO, AERE VENETO” (con ardimento romano e soldi veneti).
(*) Avvocato del foro veneziano difensore degli otto personaggi che, nel maggio del 1997, sequestrarono un natante (ferryboat) ed il suo equipaggio, lo dirottarono, sbarcarono in Piazza San Marco con un “tanko” ed infine occuparono il campanile di San Marco. Fu anche promotore di un “processo a Napoleone”.
Anche il tricolore sarebbe un artificio dovuto ad una concessione del giacobinismo francese.
Ovviamente non mi trovo d’accordo con queste teorie e, leggendo sempre l’intervento in questione, trovo che le stesse sono avvalorate da questa frase: “… Insomma, un artificio che, per noi veneti, ha significato l'abdicazione a mille e quattrocento anni di storia di popolo indipendente; un popolo che forgiò persino un proprio diritto, plurisecolare, ostinatamente rifiutando - unico in Europa - l'applicazione del diritto romano. …”
Sottolineo i “ … millequattrocento anni …”! Al massimo solo millecento e solo per Venezia!
Infatti se si guarda un po’ le date, lo stato veneziano (e non veneto) risale al 697 con l’elezione di Paolo Lucio (Paoluccio) Anafesto a doge. Ma forse si trattava di una nomina da parte dell’imperatore bizantino, o del riconoscimento di un suo funzionario (magister militum) ad una carica con maggiori poteri per una determinata zona, sotto la sua influenza, che si limitava alla fascia costiera e non a tutto il Veneto. Il territorio veneto in quel periodo, ed anche dopo, non era indipendente. Si può affermare che con la caduta dell’impero romano le pianure venete furono percorse in continuazione da eserciti “barbari” almeno fino alla fine del primo millennio, anche con stanzialità degli stessi. E furono proprio queste invasioni che portarono alcuni profughi sulle isole della laguna già abitate in gran parte da pescatori e marinai. Quindi non si trattava di territori e popoli indipendenti.
E dopo le invasioni e gli eserciti barbarici ecco spuntare le varie signorie: i Carraresi (già feudatari d’origine longobarda), gli Ezzelini (d’origine tedesca), gli Scaligeri (ghibellini ed alleati dei tedeschi Hoenstaufen). Ed i territori in mano a vescovi in gran parte d’origine germanica? Uno per tutti quello d’Aquileia.
Solo nel XV secolo Venezia sposta i suoi interessi, interessi in gran parte solo commerciali, dal mare alla terraferma. Il Veneto diventa quindi un territorio occupato dai veneziani ed il “dogado” resta solo la città ed una limitatissima fascia costiera. Con la lungimiranza che caratterizzò sempre il modo di agire dei governanti veneziani, questi lasciarono una certa indipendenza alla rappresentanze locali che, però, erano sempre sovrastate da un podestà veneziano.
Quindi contesto i millequattrocento anni di storia di un popolo indipendente!
Relativamente al “diritto romano” rifiutato dal popolo veneto, questo mi sembra un po’ strano anche perché Venezia si è sempre considerata come proseguimento di Roma. E poi, chi erano i fuggiaschi da Aquileia, Altino e Padova, che, “fondarono Venezia"? Non erano forse “cittadini romani”? Ed i contadini che lavoravano sui campi del “graticolato romano” non erano forse ex legionari romani e loro discendenti?
Proprio sul finire delle Repubblica, il governo veneziano decretò, al fine di mantenere l’integrità della laguna e perché la stessa non divenisse mare, la costruzione delle dighe dei “murazzi”:dove posero la scritta “AUSU ROMANO, AERE VENETO” (con ardimento romano e soldi veneti).
(*) Avvocato del foro veneziano difensore degli otto personaggi che, nel maggio del 1997, sequestrarono un natante (ferryboat) ed il suo equipaggio, lo dirottarono, sbarcarono in Piazza San Marco con un “tanko” ed infine occuparono il campanile di San Marco. Fu anche promotore di un “processo a Napoleone”.
venerdì 15 giugno 2007
NON CI STO!
Il post che pensavo di inserire oggi doveva essere di carattere “leggero”, quasi una storiella, che, però, mi riservo di pubblicare un’altra volta.
Il cambiamento di programma è stato determinato dalla lettura delle notizie odierne fra le quali, nella rubrica “Italians” di Beppe Severgnini, sul sito “Corriere.it” di oggi, ho trovato pubblicato l’elenco parziale delle dichiarazioni dei lavoratori autonomi (redditi lordi 2004), elenco che vi ripropongo perché possiate godervela e gioire!
________________________________________________
pasticceri 16.705
falegnami 21.586
ceramisti 13.452
tappezzieri 22.490
odontotecnici 20.288
meccanici 20.553
parrucchieri 10.162
ristoratori 13.352
baristi 13.433
imbianchini/pittori 19.576
tassisti 11.516
elettricisti e idraulici 26.820
avvocati 49.300
architetti 30.254
dentisti 42.521
commercianti casalinghi e tv 11.696
commercianti automobili 15.688
profumeria 11.026
orologiai e gioiellieri 16.609
fruttivendoli e verdurieri 13.406
commercianti plastica e legno 16.893
_________________________________________________
“Gioire”, ho scritto bene! Non ho sbagliato! Leggetevi quest’articolo che vi spiega come, secondo uno studio sul cervello umano, anche una tassazione obbligatoria accende le aree cerebrali della gratificazione.
Dal che deduco che i cittadini appartenenti alle categorie sopra citate o non vogliono gioire, e quindi sono dei masochisti, oppure … non dispongono di un cervello!
L’elenco riprodotto non riporta i gondolieri, ma, si sa, questi non appartengono alla comune razza umana: sono di una categoria superiore!
Ma poi leggo anche che l’evasione fiscale supera i 270 miliardi di euro!
E chi evade? Non quelli a reddito fisso!
Chi appartiene alla categoria degli evasori è, senz’altro un libero professionista, un commerciante, un artigiano; questi evadono, continuano ad evadere, però piangono e si lamentano; tutti, quasi tutti, si dichiarano poveri e non vogliono una revisione degli studi di settore.
È uno scandalo!
Poi andiamo a vedere e, proprio in questi giorni, in Friuli-Venezia Giulia, salta fuori lo scandalo dove si scoprono persone con redditi da fame, ma con il possesso di yacht da favola. E non si tratta di pochi casi! Su 700 “barchette”, oltre i dieci metri, ormeggiate nelle marine di quella regione, ben 274 (quasi il 40%) appartengono a proprietari i cui redditi denunciati non permetterebbero l’acquisto e neppure la manutenzione di simili natanti. (Il Gazzettino 6.6.2007)
Proprio oggi sono stato dal parrucchiere dove, per un normale taglio di capelli (un quarto d’ora), ho pagato 15 euro; e non è uno dei più cari. La ricevuta fiscale (lui la rilascia) era la n. 1077 (siamo a circa metà anno e ve ne sono altre anche di importo superiore per prestazioni diverse); inoltre accetta anche il pagamento con carta di credito e con bancomat e, quindi, il numero delle prestazioni annue, e delle ricevute con carattere fiscale, è senz’altro superiore. Forse è un caso raro, ma, penso che sia molto al di sopra della media della sua categoria, che risulta la più bassa dell’elenco. E tutti gli altri suoi colleghi cosa denunciano?
Esempi ce ne sarebbero a non finire! Tutti i giornali di questi giorni ne parlano.
Lascio quindi ai miei cinque lettore trovarne altri.
Però, alla fine di tutto lasciatemi almeno sfogare con una frase diventata ormai celebre: “NON CI STO!”
___________
Vedi anche
http://www.informabelluno.it/content.cfm?art=10658&canale=3&ANL=20
http://sp1938.blogspot.com/2006/03/imposte-tasse-e-servizi-erogati-cosa.html
Il cambiamento di programma è stato determinato dalla lettura delle notizie odierne fra le quali, nella rubrica “Italians” di Beppe Severgnini, sul sito “Corriere.it” di oggi, ho trovato pubblicato l’elenco parziale delle dichiarazioni dei lavoratori autonomi (redditi lordi 2004), elenco che vi ripropongo perché possiate godervela e gioire!
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pasticceri 16.705
falegnami 21.586
ceramisti 13.452
tappezzieri 22.490
odontotecnici 20.288
meccanici 20.553
parrucchieri 10.162
ristoratori 13.352
baristi 13.433
imbianchini/pittori 19.576
tassisti 11.516
elettricisti e idraulici 26.820
avvocati 49.300
architetti 30.254
dentisti 42.521
commercianti casalinghi e tv 11.696
commercianti automobili 15.688
profumeria 11.026
orologiai e gioiellieri 16.609
fruttivendoli e verdurieri 13.406
commercianti plastica e legno 16.893
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“Gioire”, ho scritto bene! Non ho sbagliato! Leggetevi quest’articolo che vi spiega come, secondo uno studio sul cervello umano, anche una tassazione obbligatoria accende le aree cerebrali della gratificazione.
Dal che deduco che i cittadini appartenenti alle categorie sopra citate o non vogliono gioire, e quindi sono dei masochisti, oppure … non dispongono di un cervello!
L’elenco riprodotto non riporta i gondolieri, ma, si sa, questi non appartengono alla comune razza umana: sono di una categoria superiore!
Ma poi leggo anche che l’evasione fiscale supera i 270 miliardi di euro!
E chi evade? Non quelli a reddito fisso!
Chi appartiene alla categoria degli evasori è, senz’altro un libero professionista, un commerciante, un artigiano; questi evadono, continuano ad evadere, però piangono e si lamentano; tutti, quasi tutti, si dichiarano poveri e non vogliono una revisione degli studi di settore.
È uno scandalo!
Poi andiamo a vedere e, proprio in questi giorni, in Friuli-Venezia Giulia, salta fuori lo scandalo dove si scoprono persone con redditi da fame, ma con il possesso di yacht da favola. E non si tratta di pochi casi! Su 700 “barchette”, oltre i dieci metri, ormeggiate nelle marine di quella regione, ben 274 (quasi il 40%) appartengono a proprietari i cui redditi denunciati non permetterebbero l’acquisto e neppure la manutenzione di simili natanti. (Il Gazzettino 6.6.2007)
Proprio oggi sono stato dal parrucchiere dove, per un normale taglio di capelli (un quarto d’ora), ho pagato 15 euro; e non è uno dei più cari. La ricevuta fiscale (lui la rilascia) era la n. 1077 (siamo a circa metà anno e ve ne sono altre anche di importo superiore per prestazioni diverse); inoltre accetta anche il pagamento con carta di credito e con bancomat e, quindi, il numero delle prestazioni annue, e delle ricevute con carattere fiscale, è senz’altro superiore. Forse è un caso raro, ma, penso che sia molto al di sopra della media della sua categoria, che risulta la più bassa dell’elenco. E tutti gli altri suoi colleghi cosa denunciano?
Esempi ce ne sarebbero a non finire! Tutti i giornali di questi giorni ne parlano.
Lascio quindi ai miei cinque lettore trovarne altri.
Però, alla fine di tutto lasciatemi almeno sfogare con una frase diventata ormai celebre: “NON CI STO!”
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Vedi anche
http://www.informabelluno.it/content.cfm?art=10658&canale=3&ANL=20
http://sp1938.blogspot.com/2006/03/imposte-tasse-e-servizi-erogati-cosa.html
mercoledì 13 giugno 2007
Vi racconto un canto: "Stelutis alpinis"
Ultimamente i miei post sono stati di tipo “impegnato” ed anche seriosi o austeri, post che, comunque, hanno dato adito a scontri verbali ed a polemiche.
Ora vorrei concedermi, e concedere ai miei cinque lettori, un po’ di relax e, per questo, ripropongo un mio scritto di due anni fa, creato per un altro contesto, che ritengo possa interessare altre persone che non siano addentro al canto corale.
Ritengo anche che gli amici del mio coro facciano bene a leggerlo nuovamente perché il cantare, consci di quello che si sta eseguendo, può favorirne l’interpretazione. Se poi lo leggeranno anche altri coristi, tanto meglio.
STELUTIS ALPINIS
Da pochi giorni mi trovavo presso la caserma “Chiarle” della Scuola Militare Alpina di Aosta per la seconda parte del 27° Corso AUC. Era una domenica mattina del luglio 1961 e le due compagnie di allievi si trovavano schierate nel cortile della caserma dove era celebrata la Santa Messa; all’elevazione, dopo l’usuale squillo di tromba, un gracidio, classico dei dischi a 78 giri, proveniente dall’altoparlante anticipò un improvviso “Se tu vens cassù ta’ cretis … ”, il primo verso di un canto che io, fin da bambino, avevo appreso da mia madre. Era “Stelutis alpinis” il canto che, tradizionalmente, viene eseguito durante le Messe delle truppe alpine e che mi accompagnò per il resto della “naia”. Subito dopo quella Messa ci fu chi lanciò l’idea di formare un coro, soprattutto per l’accompagnamento della liturgia. Naturalmente anch’io vi partecipai e, dopo 15 giorni il coro del 27° Corso AUC della Scuola Militare Alpina sostituì il disco ormai consunto. Da allora “Stelutis alpinis” mi ha continuato ad accompagnare anche, e soprattutto, nei miei ultimi quarant’anni come corista del “Marmolada”.
“Stelutis alpinis” fu scritto e composto da Arturo Zardini (1869-1923) nel periodo della Prima Guerra Mondiale, quando l’autore, un maestro di Pontebba, paese che allora si trovava sul confine italo-austriaco (l’abitato dall’altra parte del fiume che segnava la linea di demarcazione si chiamava Pontafel), si trovava profugo a Firenze. Forse proprio in Piazza della Signoria, leggendo sul giornale le notizie delle stragi che avvenivano al fronte, lo Zardini, commosso e rattristato da quelle vicende, trasse l’ispirazione del testo e della musica.
È quindi un canto d’autore ma che, da molti è ritenuto di origine popolare, caratteristica questa dei canti che, nel testo e nella musica, raggiungono livelli di alta poesia e che, per questo motivo, diventano patrimonio di tutto il popolo. Da subito fu fatto proprio dagli Alpini sia friulani sia di altre regioni ed ancora oggi, all’età di quasi novant’anni, rimane il canto simbolo delle truppe alpine, ma anche di tutto il popolo friulano.
Con questa composizione la poesia e la forza dell’autore si sono manifestate nella loro pienezza raggiungendo l’apice, in un commovente sincretismo e tutte le umane sofferenze si sono compendiate con toccante espressività. Non sono necessarie molte parole: ci basta pensare al brivido che ci percorre nel cantare e nell’ascoltare «..Se tu vens cassù ta' cretis...», brivido che si trasforma in emozione violenta, da serrarci la gola.
È un compendio di sofferenze, di dedizioni, di intimità, di affetti, di certezze. Non più canto, non villotta, ma preghiera profonda e, nello stesso tempo, semplice ed umana, come semplice ed umano era ed è lo spirito di Zardini.
Per i friulani “Stelutis alpinis” è sì il canto dell’Alpino morto, ma è anche considerato quasi un inno, un inno al Friuli, un inno per quella terra che ha vissuto altre sofferenze: un’altra guerra, invasioni straniere, lotte fratricide e dolorose emigrazioni.
Esaminando il testo (vedi in calce) non si può far a meno di notare il largo uso dei diminutivi, o meglio dei vezzeggiativi, caratteristica abituale nel linguaggio scritto e parlato dei friulani; “stelutis”, “crosute”, “arbute” e “bussadute” non vanno tradotti con i relativi diminutivi in italiano anche perché, oltre a ridicolizzare il testo, non hanno proprio quel significato. È una forma che si può definire affettuosa nella descrizione di oggetti ed azioni e, forse, è meglio tradurli con una perifrasi.
“Stelùte” (al plurale “stelùtis”) viene indicato nel Vocabolario Friulano (Pirona) come diminutivo, spesso come espressione affettiva, di “stele” (stella); lo stesso lemma manda a vedere “stèle alpine” che fra i sinonimi prevede anche “stele” soltanto; inoltre è citato come esempio il verso dello Zardini. La parola “crosute” è il diminutivo, sempre in forma affettiva, di “crôs”, croce, mentre “arbute” lo è di “arbe”, cioè erba, che però ha una forma più usata in “jarbe” col relativo diminutivo in “jarbute".
Infine, per concludere con i diminutivi, o come meglio indicato, con i vezzeggiativi o espressioni affettive, “bussadùte” si collega a “bussàde” (sostantivo femminile), bacio, che può anche essere tradotto con il sostantivo maschile “bùs”, in realtà poco usato.
Un altro termine interessante da esaminare è “cretis”; è il plurale di “crète” che vuol dire rupe, ma anche roccia, macigno, pendio roccioso, cresta o cima nuda di montagna. Se “crète” è un sostantivo femminile troviamo anche “crèt”, sostantivo maschile, con lo stesso significato. Sinonimo di “crète” è anche “cròde” che si avvicina al significato di croda cioè cima rocciosa appuntita tipica delle Dolomiti.
Un termine che nel verso prende un significato esteso è “duàr”. Letteralmente significa “dormo” (in questo caso si tratta di sonno eterno) e la forma infinita è “duarmî”, ma anche “durmî”.
Altri potrebbero essere i termini da esaminare ma, per non annoiare il lettore, penso che quelli sopra citati siano sufficienti ed i più interessanti soprattutto per una maggiore comprensione del testo poetico, che invito a leggere con attenzione sia in friulano e sia nelle due traduzioni.
Purtroppo, come accade per i canti che diventano famosi, c’è sempre qualcuno che vuole aggiungere qualcosa, pensando, con una discreta dose di superbia, di migliorare l’opera; nel nostro caso c’è stato chi ha pensato che il bellissimo testo di Zardini avesse bisogno di strofe in più ed ecco quindi un’aggiunta apocrifa che riporto per sola documentazione.
"Ma 'ne dì quant che la vuere / a' sara un lontan ricùard / tal to cûr, dulà ch'al jere / stele e amôr, dut sara muart. / Restarà par me che stele / che 'l miò sanc a là nudrit / par che lusi simpri biele / su l'Italie a l'infinit."
(Ma un giorno quando la guerra sarà un ricordo lontano, nel tuo cuore, dove c’erano la stella alpina e l’amore, tutto sarà morto. Per me resterà quella stella, che il mio sangue ha nutrito, perché luccichi sempre bella sull’Italia all’infinito.)
Molti credono quest’ultime strofe originali e questo si può riscontrare anche su siti internet fra i quali alcuni addirittura di Sezioni dell’A.N.A. (Associazione Nazionale Alpini).
Il testo riportato (vedi foto - cliccare sopra per ingrandirla) è quello corretto ed originale dell’autore ed anche la grafia friulana è quella esatta. La traduzione sulla terza colonna è una libera interpretazione del poeta friulano Chino Ermacora così come la scrisse nella rivista “PICCOLA PATRIA” nel 1928
Chi desiderasse ascoltare i primi 60'' di questo canto, nell'interpretazione del Coro Marmolada di Venezia, clicchi qui
Ora vorrei concedermi, e concedere ai miei cinque lettori, un po’ di relax e, per questo, ripropongo un mio scritto di due anni fa, creato per un altro contesto, che ritengo possa interessare altre persone che non siano addentro al canto corale.
Ritengo anche che gli amici del mio coro facciano bene a leggerlo nuovamente perché il cantare, consci di quello che si sta eseguendo, può favorirne l’interpretazione. Se poi lo leggeranno anche altri coristi, tanto meglio.
STELUTIS ALPINIS
Da pochi giorni mi trovavo presso la caserma “Chiarle” della Scuola Militare Alpina di Aosta per la seconda parte del 27° Corso AUC. Era una domenica mattina del luglio 1961 e le due compagnie di allievi si trovavano schierate nel cortile della caserma dove era celebrata la Santa Messa; all’elevazione, dopo l’usuale squillo di tromba, un gracidio, classico dei dischi a 78 giri, proveniente dall’altoparlante anticipò un improvviso “Se tu vens cassù ta’ cretis … ”, il primo verso di un canto che io, fin da bambino, avevo appreso da mia madre. Era “Stelutis alpinis” il canto che, tradizionalmente, viene eseguito durante le Messe delle truppe alpine e che mi accompagnò per il resto della “naia”. Subito dopo quella Messa ci fu chi lanciò l’idea di formare un coro, soprattutto per l’accompagnamento della liturgia. Naturalmente anch’io vi partecipai e, dopo 15 giorni il coro del 27° Corso AUC della Scuola Militare Alpina sostituì il disco ormai consunto. Da allora “Stelutis alpinis” mi ha continuato ad accompagnare anche, e soprattutto, nei miei ultimi quarant’anni come corista del “Marmolada”.
“Stelutis alpinis” fu scritto e composto da Arturo Zardini (1869-1923) nel periodo della Prima Guerra Mondiale, quando l’autore, un maestro di Pontebba, paese che allora si trovava sul confine italo-austriaco (l’abitato dall’altra parte del fiume che segnava la linea di demarcazione si chiamava Pontafel), si trovava profugo a Firenze. Forse proprio in Piazza della Signoria, leggendo sul giornale le notizie delle stragi che avvenivano al fronte, lo Zardini, commosso e rattristato da quelle vicende, trasse l’ispirazione del testo e della musica.
È quindi un canto d’autore ma che, da molti è ritenuto di origine popolare, caratteristica questa dei canti che, nel testo e nella musica, raggiungono livelli di alta poesia e che, per questo motivo, diventano patrimonio di tutto il popolo. Da subito fu fatto proprio dagli Alpini sia friulani sia di altre regioni ed ancora oggi, all’età di quasi novant’anni, rimane il canto simbolo delle truppe alpine, ma anche di tutto il popolo friulano.
Con questa composizione la poesia e la forza dell’autore si sono manifestate nella loro pienezza raggiungendo l’apice, in un commovente sincretismo e tutte le umane sofferenze si sono compendiate con toccante espressività. Non sono necessarie molte parole: ci basta pensare al brivido che ci percorre nel cantare e nell’ascoltare «..Se tu vens cassù ta' cretis...», brivido che si trasforma in emozione violenta, da serrarci la gola.
È un compendio di sofferenze, di dedizioni, di intimità, di affetti, di certezze. Non più canto, non villotta, ma preghiera profonda e, nello stesso tempo, semplice ed umana, come semplice ed umano era ed è lo spirito di Zardini.
Per i friulani “Stelutis alpinis” è sì il canto dell’Alpino morto, ma è anche considerato quasi un inno, un inno al Friuli, un inno per quella terra che ha vissuto altre sofferenze: un’altra guerra, invasioni straniere, lotte fratricide e dolorose emigrazioni.
Esaminando il testo (vedi in calce) non si può far a meno di notare il largo uso dei diminutivi, o meglio dei vezzeggiativi, caratteristica abituale nel linguaggio scritto e parlato dei friulani; “stelutis”, “crosute”, “arbute” e “bussadute” non vanno tradotti con i relativi diminutivi in italiano anche perché, oltre a ridicolizzare il testo, non hanno proprio quel significato. È una forma che si può definire affettuosa nella descrizione di oggetti ed azioni e, forse, è meglio tradurli con una perifrasi.
“Stelùte” (al plurale “stelùtis”) viene indicato nel Vocabolario Friulano (Pirona) come diminutivo, spesso come espressione affettiva, di “stele” (stella); lo stesso lemma manda a vedere “stèle alpine” che fra i sinonimi prevede anche “stele” soltanto; inoltre è citato come esempio il verso dello Zardini. La parola “crosute” è il diminutivo, sempre in forma affettiva, di “crôs”, croce, mentre “arbute” lo è di “arbe”, cioè erba, che però ha una forma più usata in “jarbe” col relativo diminutivo in “jarbute".
Infine, per concludere con i diminutivi, o come meglio indicato, con i vezzeggiativi o espressioni affettive, “bussadùte” si collega a “bussàde” (sostantivo femminile), bacio, che può anche essere tradotto con il sostantivo maschile “bùs”, in realtà poco usato.
Un altro termine interessante da esaminare è “cretis”; è il plurale di “crète” che vuol dire rupe, ma anche roccia, macigno, pendio roccioso, cresta o cima nuda di montagna. Se “crète” è un sostantivo femminile troviamo anche “crèt”, sostantivo maschile, con lo stesso significato. Sinonimo di “crète” è anche “cròde” che si avvicina al significato di croda cioè cima rocciosa appuntita tipica delle Dolomiti.
Un termine che nel verso prende un significato esteso è “duàr”. Letteralmente significa “dormo” (in questo caso si tratta di sonno eterno) e la forma infinita è “duarmî”, ma anche “durmî”.
Altri potrebbero essere i termini da esaminare ma, per non annoiare il lettore, penso che quelli sopra citati siano sufficienti ed i più interessanti soprattutto per una maggiore comprensione del testo poetico, che invito a leggere con attenzione sia in friulano e sia nelle due traduzioni.
Purtroppo, come accade per i canti che diventano famosi, c’è sempre qualcuno che vuole aggiungere qualcosa, pensando, con una discreta dose di superbia, di migliorare l’opera; nel nostro caso c’è stato chi ha pensato che il bellissimo testo di Zardini avesse bisogno di strofe in più ed ecco quindi un’aggiunta apocrifa che riporto per sola documentazione.
"Ma 'ne dì quant che la vuere / a' sara un lontan ricùard / tal to cûr, dulà ch'al jere / stele e amôr, dut sara muart. / Restarà par me che stele / che 'l miò sanc a là nudrit / par che lusi simpri biele / su l'Italie a l'infinit."
(Ma un giorno quando la guerra sarà un ricordo lontano, nel tuo cuore, dove c’erano la stella alpina e l’amore, tutto sarà morto. Per me resterà quella stella, che il mio sangue ha nutrito, perché luccichi sempre bella sull’Italia all’infinito.)
Molti credono quest’ultime strofe originali e questo si può riscontrare anche su siti internet fra i quali alcuni addirittura di Sezioni dell’A.N.A. (Associazione Nazionale Alpini).
Il testo riportato (vedi foto - cliccare sopra per ingrandirla) è quello corretto ed originale dell’autore ed anche la grafia friulana è quella esatta. La traduzione sulla terza colonna è una libera interpretazione del poeta friulano Chino Ermacora così come la scrisse nella rivista “PICCOLA PATRIA” nel 1928
Chi desiderasse ascoltare i primi 60'' di questo canto, nell'interpretazione del Coro Marmolada di Venezia, clicchi qui
lunedì 11 giugno 2007
Segnalazione concerto
Con questo post desidero segnalare un concerto di un “coro di eccellenza”.
Si tratta del
Philippine Madrigal Singers
dell’Università delle Filippine
che sarà in concerto presso il
Teatro Opera della Provvidenza S. Antonio
a Sarmeola di Rubano (PD)
il giorno 6 luglio 2007(venerdì) alle ore 21
Il concerto è organizzato dal Coro Lavaredo di Padova
Ingresso: € 5,00 - Ragazzi fino a 14 anni GRATUITO
Per scaricare il pieghevole, in formato pdf, con il programma di sala ed il curriculum del coro, clicca qui.
Per consultare il sito del coro (in inglese) : http://www.philippinemadrigalsingers.com
Si tratta del
Philippine Madrigal Singers
dell’Università delle Filippine
che sarà in concerto presso il
Teatro Opera della Provvidenza S. Antonio
a Sarmeola di Rubano (PD)
il giorno 6 luglio 2007(venerdì) alle ore 21
Il concerto è organizzato dal Coro Lavaredo di Padova
Ingresso: € 5,00 - Ragazzi fino a 14 anni GRATUITO
Per scaricare il pieghevole, in formato pdf, con il programma di sala ed il curriculum del coro, clicca qui.
Per consultare il sito del coro (in inglese) : http://www.philippinemadrigalsingers.com
domenica 10 giugno 2007
Tenere d'occhio chi acquista candele blu!
Un editore, E POLIS, che produce giornali a distribuzione gratuita su buona parte del territorio nazionale, ha lanciato una lodevole iniziativa, dal titolo “Fermiamo gli orchi”, alla quale si può aderire collegandosi al sito dello stesso editore: http://www.epolis.sm/
Di cosa si tratti è facilmente intuibile, anche perché, da tempo, questi individui stanno propagandando, per il 23 giugno p.v., attraverso internet, una giornata chiamata “boy love day”, una giornata dell’orgoglio pedofilo, durante la quale dovranno, fra l'altro, "accendere una candela blu".
Questa di “Fermiamo gli orchi” è, ripeto, una lodevole iniziativa che, però, non deve fermarsi con il 23 giugno. Deve essere un continuo insistere a tutti i livelli.
Questi loschi individui devono sentirsi braccati ovunque si trovino ed in qualsiasi momento.
Importante è fare pressione sull'Unione Europea affinché si faccia sentire presso “certi stati” che, su questo argomento, ci sentono poco, perché “ipergarantisti della libertà dell'individuo”. Ma di quale libertà si tratta? Quella dei bambini no di certo!
Tenere d'occhio chi acquista delle candele blu!
Clicca qui per l’editoriale del direttore de “il Venezia”, uno dei giornali di questa linea editoriale.
Di cosa si tratti è facilmente intuibile, anche perché, da tempo, questi individui stanno propagandando, per il 23 giugno p.v., attraverso internet, una giornata chiamata “boy love day”, una giornata dell’orgoglio pedofilo, durante la quale dovranno, fra l'altro, "accendere una candela blu".
Questa di “Fermiamo gli orchi” è, ripeto, una lodevole iniziativa che, però, non deve fermarsi con il 23 giugno. Deve essere un continuo insistere a tutti i livelli.
Questi loschi individui devono sentirsi braccati ovunque si trovino ed in qualsiasi momento.
Importante è fare pressione sull'Unione Europea affinché si faccia sentire presso “certi stati” che, su questo argomento, ci sentono poco, perché “ipergarantisti della libertà dell'individuo”. Ma di quale libertà si tratta? Quella dei bambini no di certo!
Tenere d'occhio chi acquista delle candele blu!
Clicca qui per l’editoriale del direttore de “il Venezia”, uno dei giornali di questa linea editoriale.
Non vorrei essere una "Cassandra"
Non vorrei diventare una “Cassandra”, ma i fatti odierni (vedi articoli su Corriere.it e su la Repubblica.it), relativi alle nuove minacce ricevute da mons.Bagnasco, Presidente della CEI e Arcivescovo di Genova, sembrano indicare che si vada nella direzione che paventavo nei miei post precedenti Scritte sui muri: "corsi e ricorsi storici"! e Terrorismo si? Terrorismo no? dove, fra l’altro, prevedevo una “escalation”; ciò è puntualmente avvenuto.
Ora mi aspetto che gli istigatori, che ci sono e che si nascondono –non troppo bene- nelle varie conventicole anticlericali, liberiste e libertarie, e che si vogliono ammantare con l’aureola della democrazia, facciano un passo indietro prima che sia troppo tardi.
Però, purtroppo, quando gli idioti istigati sono partiti, non è detto che si fermino!
Ora mi aspetto che gli istigatori, che ci sono e che si nascondono –non troppo bene- nelle varie conventicole anticlericali, liberiste e libertarie, e che si vogliono ammantare con l’aureola della democrazia, facciano un passo indietro prima che sia troppo tardi.
Però, purtroppo, quando gli idioti istigati sono partiti, non è detto che si fermino!
sabato 9 giugno 2007
“Scrivi cento volte: sono un deficiente”. Poco! Dovevano essere almeno mille!
Quando ero alle scuole medie, molti anni fa, non avendo saputo scandire bene un distico elegiaco in latino, la professoressa mi diede come “castigo” l’obbligo di scandire, per iscritto, venticinque distici, cioè cinquanta versi, e questo per parecchi giorni. Vi assicuro che alla fine sapevo scandire in modo perfetto, anche a prima vista, tutte le poesie latine che mi venivano sottoposte.
Dopo questa premessa leggete l’articolo che riporta quanto sta accadendo, in questi giorni, a Palermo dove una professoressa ha imposto, ad un suo alunno, che si era macchiato di “bullismo”, di scrivere per cento volte “Sono un deficiente”, spiegando cosa vuol dire questa parola.
Ora, viene da pensare che questo alunno sia proprio deficiente, nel suo significato di “mancante”! Quello che a lui manca è la famiglia, una famiglia che lo sappia educare, innanzitutto al rispetto verso i suoi simili, i sui compagni, ed al rispetto verso gli insegnanti che, come in questo caso, si è dimostrata anche un’educatrice.
Per me cento volte è poco!
Spero solo che il Tribunale di Palermo assolva l’insegnante per “non aver commesso il fatto” e condanni la famiglia per le offese rivolte all’insegnante, ma, soprattutto, per non saper educare il proprio figlio!
Se io fossi il giudice toglierei loro la “patria potesta”!
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Dopo questa premessa leggete l’articolo che riporta quanto sta accadendo, in questi giorni, a Palermo dove una professoressa ha imposto, ad un suo alunno, che si era macchiato di “bullismo”, di scrivere per cento volte “Sono un deficiente”, spiegando cosa vuol dire questa parola.
Ora, viene da pensare che questo alunno sia proprio deficiente, nel suo significato di “mancante”! Quello che a lui manca è la famiglia, una famiglia che lo sappia educare, innanzitutto al rispetto verso i suoi simili, i sui compagni, ed al rispetto verso gli insegnanti che, come in questo caso, si è dimostrata anche un’educatrice.
Per me cento volte è poco!
Spero solo che il Tribunale di Palermo assolva l’insegnante per “non aver commesso il fatto” e condanni la famiglia per le offese rivolte all’insegnante, ma, soprattutto, per non saper educare il proprio figlio!
Se io fossi il giudice toglierei loro la “patria potesta”!
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mercoledì 6 giugno 2007
La lingua italiana ha guadagnato il quarto posto nella “blogsfera”
Alcuni giorni fa è apparsa la notizia (clicca qui) relativa al quarto posto guadagnato dalla lingua italiana nella “blogsfera”, dopo il giapponese, l’inglese (retrocesso al secondo posto) ed il cinese.
In pratica, ci troviamo prima dello spagnolo, del portoghese, del francese e del tedesco, tutti idiomi che, nel mondo, vengono parlati da un numero di persone maggiore di quelle che parlano l’italiano.
Diciamo pure che è una “buona” notizia, anche perché, in questo modo, viene un po’ sfatata la teoria che ci vede molto indietro nel campo della IT (Tecnologia dell’informazione)!
Siamo dunque avanti per quanto riguarda la quantità, ma avete mai riscontrato la “qualità” dei “blog” nostrani?
Per carità, nessuno pretende che chi scrive debba essere un letterato, un Manzoni, un D’Annunzio, un Umberto Eco, e così via, tanto per citarne qualcuno. Si sa che, ogni tanto, qualche errore può sfuggire, e non solo di digitazione, però, ed è la norma, chi scrive “post” e, soprattutto chi commenta, fa dell’errore di grammatica e di ortografia, ma anche della sciatteria nello scrivere, il suo stile di vita!
E non si venga a dire che tutto ciò è dovuto alla fretta! Cari “colleghi bloggisti” fermatevi un po’! La troppa fretta e la troppa ansia di prestazione, scusatemi, di pubblicazione possono fare brutti scherzi, anche letali!
Toccatevi e … andiamo avanti!
Chi scrive lo fa per i più svariati motivi e, senz’altro, anche per “…esporre il proprio onanismo - prosaicamente: la propria vanità. …”, come recita una frase di un recente “post” di un “blogger” che leggo abitualmente. C’è molto di vero in questa affermazione; chi scrive sul “blog” pensa che qualcuno lo legga, anzi lo desidera, oserei dire che è un ambizioso, altrimenti scriverebbe su un diario segreto. Allora, se uno vuole essere letto, perché deve scrivere così male? Perché deve scrivere “xké” per significare “perché”? Perché deve scrivere tutto in minuscolo? Perché non deve utilizzare la punteggiatura? Perché deve scrivere “pò” per significare “po’”, cioè “poco”? Mi fermo qui, con gli esempi, ma ognuno di voi avrà senz’altro riscontrato tanti altri errori e sciatterie.
E l’uso continuo del turpiloquio! Anzi, i vocaboli da definire “non parolacce” sono, spesso, in quantità minore rispetto agli altri. Forse questi termini vengono usati alla stessa maniera dei bambini, cioè per “apparire grandi”! Grandi di altezza, ma non di cervello! Per carità, senza essere puritani, tuttavia si sa che gli eccessi, dopo un po’, annoiano.
Poi ci sono quelli che scrivono un po’ in italiano, con molti incisi in inglese, e con tante sigle: si capiscono solo loro, ma non ne sono tanto sicuro!
Ognuno è libero di scegliere i “blog” che desidera e, solo in questo modo, avviene la selezione; però ci sono quelli che si intromettono nel tuo “blog”, sparlano, vanno fuori tema, hanno letto il tuo “post” in fretta (sempre la fretta) e rispondono il classico “Roma per toma”! Sembra quasi che vogliano declassificare, sminuire, svalutare il tuo “post”. Purtroppo, per non passare per “censori” (brutta cosa la censura), bisogna tenerseli. In genere, i peggiori commenti sono sempre anonimi ed io odio l’anonimato.
Non abbiate fretta nell’inserire i vostri commenti!
martedì 5 giugno 2007
Coralità “alpina”: cos’è?
Navigando in internet, mi sono imbattuto nel sito dell’A.N.A. (Associazione Nazionale Alpini) e, in particolare, nella sezione denominata “Coralità alpina” il cui indirizzo, per chi fosse interessato ad approfondire, è il seguente: http://www.ana.it/page/il-dibattito-sulla-coralit-agrave--2009-07-13
Ovviamente, mi sono letto tutti gli articoli (ben sedici) nei quali sono espressi diversi pareri, sia di “esperti” (maestri, coristi), sia di alpini, per lo più legati ai moduli di canto “alpino”, modulo che in tanti hanno tentato di definire senza, secondo me, riuscirci, anche perché non esiste.
Cosa si intenda per voce “maschia”, concetto ribadito in alcuni interventi, non è molto ben chiaro; a mio parere, dopo parecchi anni di esperienza corale, durante i quali ho avuto modo di ascoltare anche dei cosiddetti cori “alpini”, la voce “maschia” è quella, a volume elevato. L’importante è farsi sentire, non importa come e non importa se intonati o meno. Questo, per qualcuno è il canto “alpino”.
Ma poi, esiste veramente il canto “alpino”? Bisogna ricordare, per l’ennesima volta, che il nostro modo di cantare discende da “…un’invenzione dei fratelli Pedrotti…” (De Marzi) che fondarono un coro cittadino e quindi non “di montagna” né tanto meno “alpino”.
Nell’intervento di Renato Amedeo Buselli, direttore del coro “A.N.A. San Zeno di Verona”, l’autore ricorda il libro dell’ex presidente nazionale dell’A.N.A., Caprioli, dal titolo “Cantavamo Rosamunda”; è “Rosamunda” un canto “alpino”? No ovviamente, come non lo è “Mira il tuo popolo o Bella Signora” che, Bepi De Marzi, citando alcuni reduci della campagna di Russia, ricorda che veniva cantato dagli alpini sulle rive del Don.
Gli alpini cantavano in coro, con le mani dietro la schiena, a quattro voci? Ovviamente no! Si trattava, invece, di canti monodici delle loro contrade, spesso di argomento amoroso ed accompagnati da uno strumento.
Ed allora, perché questo accanimento nel rispolverare un “canto alpino” che non è mai esistito? Forse la nostalgia di qualche anziano; non vedo altri motivi.
Perché criticare le armonie a più voci, raffinate ed affinate, che certi cori riescono ad eseguire suscitando nel pubblico ammirazione ed anche entusiasmo? Perché voler insistere che quando il pubblico sente intonare dei “canti alpini”, “… cantati alla maniera semplice …” (cosa sia la maniera semplice non si sa) solo allora si entusiasma? Perché insistere che non si deve cantare “Funiculì, funiculà” perché non è una canzone alpina? Secondo me certi personaggi sono pervasi da “razzismo canoro”! Solo quei canti (quelli “alpini”) hanno valore e devono essere cantati ed anche nel modo voluto da loro. Tutto il resto, anche se non lo dicono, non ha valore.
Un sacerdote scrive, fra l’altro,: “… Non è pensabile eseguire brani nati in trincea, tra il fango e la mitraglia, con la leziosità di armonizzazioni che nell’esperienza popolare assolutamente non esistono: il coro alpino non è un coro di monache e nemmeno il coro della cattedrale: dev’essere coro virile, deciso, spontaneo e naturale; anche le armonizzazioni a quattro voci pari, con tutto il rispetto dei grandi maestri che le hanno approntate, si rivelano spesso artefatte, stucchevoli e fasulle, giacché spontaneamente, nessuno, a meno che abbia fatto studi di armonia in conservatorio, è in grado di creare tali armonizzazioni.”
Ma chi lo dice che i canti sono nati “tra il fango e la mitraglia”? E cosa vuol dire “naturale”? Per fortuna, più avanti, sempre lo stesso sacerdote, ammette che con il suo coro di 20 elementi “… non fa concerti altolocati …”!!!
Scrive un certo Rodolfo Gallazzi, un alpino non appartenente al mondo dei cori: “... E in una Italia che sta rinunciando alla propria identità storica, culturale e religiosa (grazie a tanti nostri politici e a tanta parte del clero) non sento il bisogno che anche noi ci si allinei a questa cultura rinunciataria. Non è che tra qualche mese verranno inseriti in repertorio anche canti arabi per essere ancora di più in linea con la cultura multietnica?” Evidentemente la “cultura” leghista ha fatto breccia anche nel cuore di qualche alpino.
Se il canto arabo è bello, perché rinunciare a cantarlo? Solo perché non è alpino?
Ma per fortuna non tutti gli alpini sono di questo stampo, ed allora il già citato Renato Amedeo Buselli, del quale condivido tutto il suo intervento, risponde: “… Pertanto se un coro desidera cantare “Funicolì funicolà” e “La Madunina” le canti pure e perché no? anche canzoni arabe, basta che piacciano. Sono perfettamente d’accordo con il direttore del coro ANA della sezione di Milano Massimo Marchesotti, il quale dice che un coro alpino o non alpino deve cantare e l’impegno dei coristi e del direttore è far cantare e cantare… bene.”
Quindi, usando un termine militare, la parola d’ordine è: “CANTARE BENE”, ovviamente non nel modo voluto da certi alpini!
Ovviamente, mi sono letto tutti gli articoli (ben sedici) nei quali sono espressi diversi pareri, sia di “esperti” (maestri, coristi), sia di alpini, per lo più legati ai moduli di canto “alpino”, modulo che in tanti hanno tentato di definire senza, secondo me, riuscirci, anche perché non esiste.
Cosa si intenda per voce “maschia”, concetto ribadito in alcuni interventi, non è molto ben chiaro; a mio parere, dopo parecchi anni di esperienza corale, durante i quali ho avuto modo di ascoltare anche dei cosiddetti cori “alpini”, la voce “maschia” è quella, a volume elevato. L’importante è farsi sentire, non importa come e non importa se intonati o meno. Questo, per qualcuno è il canto “alpino”.
Ma poi, esiste veramente il canto “alpino”? Bisogna ricordare, per l’ennesima volta, che il nostro modo di cantare discende da “…un’invenzione dei fratelli Pedrotti…” (De Marzi) che fondarono un coro cittadino e quindi non “di montagna” né tanto meno “alpino”.
Nell’intervento di Renato Amedeo Buselli, direttore del coro “A.N.A. San Zeno di Verona”, l’autore ricorda il libro dell’ex presidente nazionale dell’A.N.A., Caprioli, dal titolo “Cantavamo Rosamunda”; è “Rosamunda” un canto “alpino”? No ovviamente, come non lo è “Mira il tuo popolo o Bella Signora” che, Bepi De Marzi, citando alcuni reduci della campagna di Russia, ricorda che veniva cantato dagli alpini sulle rive del Don.
Gli alpini cantavano in coro, con le mani dietro la schiena, a quattro voci? Ovviamente no! Si trattava, invece, di canti monodici delle loro contrade, spesso di argomento amoroso ed accompagnati da uno strumento.
Ed allora, perché questo accanimento nel rispolverare un “canto alpino” che non è mai esistito? Forse la nostalgia di qualche anziano; non vedo altri motivi.
Perché criticare le armonie a più voci, raffinate ed affinate, che certi cori riescono ad eseguire suscitando nel pubblico ammirazione ed anche entusiasmo? Perché voler insistere che quando il pubblico sente intonare dei “canti alpini”, “… cantati alla maniera semplice …” (cosa sia la maniera semplice non si sa) solo allora si entusiasma? Perché insistere che non si deve cantare “Funiculì, funiculà” perché non è una canzone alpina? Secondo me certi personaggi sono pervasi da “razzismo canoro”! Solo quei canti (quelli “alpini”) hanno valore e devono essere cantati ed anche nel modo voluto da loro. Tutto il resto, anche se non lo dicono, non ha valore.
Un sacerdote scrive, fra l’altro,: “… Non è pensabile eseguire brani nati in trincea, tra il fango e la mitraglia, con la leziosità di armonizzazioni che nell’esperienza popolare assolutamente non esistono: il coro alpino non è un coro di monache e nemmeno il coro della cattedrale: dev’essere coro virile, deciso, spontaneo e naturale; anche le armonizzazioni a quattro voci pari, con tutto il rispetto dei grandi maestri che le hanno approntate, si rivelano spesso artefatte, stucchevoli e fasulle, giacché spontaneamente, nessuno, a meno che abbia fatto studi di armonia in conservatorio, è in grado di creare tali armonizzazioni.”
Ma chi lo dice che i canti sono nati “tra il fango e la mitraglia”? E cosa vuol dire “naturale”? Per fortuna, più avanti, sempre lo stesso sacerdote, ammette che con il suo coro di 20 elementi “… non fa concerti altolocati …”!!!
Scrive un certo Rodolfo Gallazzi, un alpino non appartenente al mondo dei cori: “... E in una Italia che sta rinunciando alla propria identità storica, culturale e religiosa (grazie a tanti nostri politici e a tanta parte del clero) non sento il bisogno che anche noi ci si allinei a questa cultura rinunciataria. Non è che tra qualche mese verranno inseriti in repertorio anche canti arabi per essere ancora di più in linea con la cultura multietnica?” Evidentemente la “cultura” leghista ha fatto breccia anche nel cuore di qualche alpino.
Se il canto arabo è bello, perché rinunciare a cantarlo? Solo perché non è alpino?
Ma per fortuna non tutti gli alpini sono di questo stampo, ed allora il già citato Renato Amedeo Buselli, del quale condivido tutto il suo intervento, risponde: “… Pertanto se un coro desidera cantare “Funicolì funicolà” e “La Madunina” le canti pure e perché no? anche canzoni arabe, basta che piacciano. Sono perfettamente d’accordo con il direttore del coro ANA della sezione di Milano Massimo Marchesotti, il quale dice che un coro alpino o non alpino deve cantare e l’impegno dei coristi e del direttore è far cantare e cantare… bene.”
Quindi, usando un termine militare, la parola d’ordine è: “CANTARE BENE”, ovviamente non nel modo voluto da certi alpini!
domenica 3 giugno 2007
Squilla il telefono: “ … parlo con il reperibile del CED?”
3 giugno 2007, domenica, ore 8,45. squilla il telefono e vado a rispondere; alzo la cornetta e …
”Pronto, parla il centralino dell’Ospedale di Mestre. Telefoniamo perché il reperibile del CED non risponde né al numero di casa, né al cellulare di servizio. Abbiamo chiamato lei perché c’è un problema al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Venezia, già da oltre mezz’ora, e, dal numero telefonico dell’elenco dei reperibili abbiamo riscontrato che abita a Venezia”.
“Un momento” – rispondo io – “prima di continuare, la informo che io sono in pensione da tre anni, un mese e tre giorni!”
“Mi scusi ma è ancora nell’elenco”.
“Nessun disturbo, anche perché non mi avete chiamato alle due del mattino. Mi dispiace, ma non posso aiutarvi. Buongiorno”.
“Buongiorno e ancora mi scuso”
Fine della telefonata.
Deduzione: il mio nominativo, con i relativi numeri telefonici privati (fisso e cellulare) si trova ancora nell’elenco dei reperibili del Servizio Informatica dell’Ulss 12 di Venezia – Mestre e questo dopo tre anni, un mese e tre giorni dal pensionamento!
Domanda: ci voleva tanto a correggere il documento (word o excel) prima di ristamparlo ed inviarlo agli operatori del centralino ai quali arrivano le chiamate in prima istanza? Possibile che in tutto questo tempo nessuno, sia chi lo compila che chi lo firma, si sia accorto di nulla?
Ulteriore domanda: che sia il caso di chiedere all’Azienda Ulss un’indennità per i tre anni, un mese e tre giorni durante i quali sono “… rimasto ancora in servizio”?
”Pronto, parla il centralino dell’Ospedale di Mestre. Telefoniamo perché il reperibile del CED non risponde né al numero di casa, né al cellulare di servizio. Abbiamo chiamato lei perché c’è un problema al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Venezia, già da oltre mezz’ora, e, dal numero telefonico dell’elenco dei reperibili abbiamo riscontrato che abita a Venezia”.
“Un momento” – rispondo io – “prima di continuare, la informo che io sono in pensione da tre anni, un mese e tre giorni!”
“Mi scusi ma è ancora nell’elenco”.
“Nessun disturbo, anche perché non mi avete chiamato alle due del mattino. Mi dispiace, ma non posso aiutarvi. Buongiorno”.
“Buongiorno e ancora mi scuso”
Fine della telefonata.
Deduzione: il mio nominativo, con i relativi numeri telefonici privati (fisso e cellulare) si trova ancora nell’elenco dei reperibili del Servizio Informatica dell’Ulss 12 di Venezia – Mestre e questo dopo tre anni, un mese e tre giorni dal pensionamento!
Domanda: ci voleva tanto a correggere il documento (word o excel) prima di ristamparlo ed inviarlo agli operatori del centralino ai quali arrivano le chiamate in prima istanza? Possibile che in tutto questo tempo nessuno, sia chi lo compila che chi lo firma, si sia accorto di nulla?
Ulteriore domanda: che sia il caso di chiedere all’Azienda Ulss un’indennità per i tre anni, un mese e tre giorni durante i quali sono “… rimasto ancora in servizio”?
Mancanza di cortesia o maleducazione?
Il mondo è proprio cambiato! O meglio: quanta poca sensibilità verso il prossimo, per non parlare di vera e propria maleducazione!
E non è una prerogativa solo veneziana o italiana perché ci si mettono anche gli stranieri.
Era da un po’ di tempo che desideravo scrivere un post sull’argomento, opportunità che ora mi dà la notizia apparsa su Il Gazzettino del 2 giugno (clicca qui).
Una volta, quando ero ragazzino, era difficile che, in un mezzo di trasporto pubblico, una persona anziana ed una mamma in attesa restassero in piedi. In genere i giovani, e gli uomini in genere, facevano a gara per cedere il posto a sedere e se qualche ragazzino non era svelto ad alzarsi veniva redarguito. Mi ricordo, almeno dalle parti in cui abitavo, che una frase era questa: “No te ga insegnà gnente la maestra Tanca (un’istituzione delle scuole elementari della zona)”.
Oggi è tutto cambiato: i ragazzini non stanno seduti, ma “stravaccati” anche su più sedili e con i piedi posati sui posti di fronte; non guardano cosa succede attorno a loro in quanto tutti presi dai “telefonini” con i quali giocano o inviano sms. Non si accorgono, o fanno finta di non accorgersi, di chi è salito, sull’autobus o sul vaporetto, e, magari, ha qualche difficoltà nello stare in piedi.
Senz’altro è mancanza di educazione, soprattutto da parte dei genitori. La scuola, forse, c’entra poco.
A volte occupano più posti perché devono posizionare lo zaino (sempre enorme).
E non è che i turisti siano da meno. Questi, inoltre, occupano i posti con enormi valige che, invece, potrebbero lasciare sui posti a questo adibiti (sui vaporetti). Anche i turisti non si accorgono di quanto succede, non per i telefonini, ma per guardare fuori dal finestrino e per fare fotografie. Con la scusa di non capire l’italiano restano avulsi da quello che può succedere intorno.
Poi c’è il pericolo, ad una richiesta del posto, di qualche risposta non molto edificante.
Fino a qualche tempo fa chi cedeva il posto erano gli extracomunitari in genere, in particolare gli indiani (cingalesi et similia) e gli africani. Ora anche loro si sono adeguati!
Servirà a qualcosa “l’operazione cortesia” voluta dall’assessore?
A margine di questo post, un aneddoto con protagonista mio padre.
Un giorno, ritornato a casa dall’ufficio, dopo i saluti disse: “Sono avvilito! Oggi, per la prima volta, una persona mi ha ceduto il suo posto in vaporetto: vuol proprio dire che sono diventato vecchio!”
E non è una prerogativa solo veneziana o italiana perché ci si mettono anche gli stranieri.
Era da un po’ di tempo che desideravo scrivere un post sull’argomento, opportunità che ora mi dà la notizia apparsa su Il Gazzettino del 2 giugno (clicca qui).
Una volta, quando ero ragazzino, era difficile che, in un mezzo di trasporto pubblico, una persona anziana ed una mamma in attesa restassero in piedi. In genere i giovani, e gli uomini in genere, facevano a gara per cedere il posto a sedere e se qualche ragazzino non era svelto ad alzarsi veniva redarguito. Mi ricordo, almeno dalle parti in cui abitavo, che una frase era questa: “No te ga insegnà gnente la maestra Tanca (un’istituzione delle scuole elementari della zona)”.
Oggi è tutto cambiato: i ragazzini non stanno seduti, ma “stravaccati” anche su più sedili e con i piedi posati sui posti di fronte; non guardano cosa succede attorno a loro in quanto tutti presi dai “telefonini” con i quali giocano o inviano sms. Non si accorgono, o fanno finta di non accorgersi, di chi è salito, sull’autobus o sul vaporetto, e, magari, ha qualche difficoltà nello stare in piedi.
Senz’altro è mancanza di educazione, soprattutto da parte dei genitori. La scuola, forse, c’entra poco.
A volte occupano più posti perché devono posizionare lo zaino (sempre enorme).
E non è che i turisti siano da meno. Questi, inoltre, occupano i posti con enormi valige che, invece, potrebbero lasciare sui posti a questo adibiti (sui vaporetti). Anche i turisti non si accorgono di quanto succede, non per i telefonini, ma per guardare fuori dal finestrino e per fare fotografie. Con la scusa di non capire l’italiano restano avulsi da quello che può succedere intorno.
Poi c’è il pericolo, ad una richiesta del posto, di qualche risposta non molto edificante.
Fino a qualche tempo fa chi cedeva il posto erano gli extracomunitari in genere, in particolare gli indiani (cingalesi et similia) e gli africani. Ora anche loro si sono adeguati!
Servirà a qualcosa “l’operazione cortesia” voluta dall’assessore?
A margine di questo post, un aneddoto con protagonista mio padre.
Un giorno, ritornato a casa dall’ufficio, dopo i saluti disse: “Sono avvilito! Oggi, per la prima volta, una persona mi ha ceduto il suo posto in vaporetto: vuol proprio dire che sono diventato vecchio!”
sabato 2 giugno 2007
Hostess per "mantenere il decoro" nel cuore del centro storico di Venezia.
È entrata in vigore, ieri 1° giugno, l’ordinanza comunale che vieta di consumare il “pranzo”, magari in piedi, nella cosiddetta “area marciana”, cioè Piazza San Marco e dintorni.
Già ho trattato questo argomento in un precedente post (clicca qui), dove ipotizzavo qualche difficoltà per i “poveri stewards” incaricati di dissuadere i turisti ad addentare il panino in Piazza.
Ieri, invece degli stewards, si sono viste le hostess che hanno iniziato l’opera di dissuasione: due per turno. Intanto che cercavano di spiegare ad un gruppo di turisti che non potevano sedersi, in questo caso siamo nella Piazzetta dei Leoncini (a sinistra della Basilica), ed iniziare il pic-nic, pochi metri più in là, un’altra comitiva s’apprestava a fare altrettanto; e ieri era una giornata tranquilla: la pioggia aveva evidentemente sconsigliato la visita alla città.
“ … Oggi è abbastanza tranquillo, non c'è caldo e quindi la gente non gira in costume o a petto nudo … “ ha detto, fra l’altro, una delle hostess. Anche questo si vede, a ridosso della Basilica e degli altri monumenti, ma anche in giro per le calli; si tratta quasi sempre di stranieri, giovani e meno giovani, gente che a casa sua non si permetterebbe mai di comportarsi in simile modo! Ma vi immaginate i guai seri ai quali andrebbero incontro gli eventuali italiani che si comportassero così nei loro paesi, dove, fra l’altro, verrebbero additati al pubblico ludibrio con la sequela dei soliti luoghi comuni!
Ma torniamo all’ordinanza e vedremo quale sarà il risultato in futuro!
___
Per approfondire e leggere la cronaca de Il Gazzettino di oggi, clicca qui.
Già ho trattato questo argomento in un precedente post (clicca qui), dove ipotizzavo qualche difficoltà per i “poveri stewards” incaricati di dissuadere i turisti ad addentare il panino in Piazza.
Ieri, invece degli stewards, si sono viste le hostess che hanno iniziato l’opera di dissuasione: due per turno. Intanto che cercavano di spiegare ad un gruppo di turisti che non potevano sedersi, in questo caso siamo nella Piazzetta dei Leoncini (a sinistra della Basilica), ed iniziare il pic-nic, pochi metri più in là, un’altra comitiva s’apprestava a fare altrettanto; e ieri era una giornata tranquilla: la pioggia aveva evidentemente sconsigliato la visita alla città.
“ … Oggi è abbastanza tranquillo, non c'è caldo e quindi la gente non gira in costume o a petto nudo … “ ha detto, fra l’altro, una delle hostess. Anche questo si vede, a ridosso della Basilica e degli altri monumenti, ma anche in giro per le calli; si tratta quasi sempre di stranieri, giovani e meno giovani, gente che a casa sua non si permetterebbe mai di comportarsi in simile modo! Ma vi immaginate i guai seri ai quali andrebbero incontro gli eventuali italiani che si comportassero così nei loro paesi, dove, fra l’altro, verrebbero additati al pubblico ludibrio con la sequela dei soliti luoghi comuni!
Ma torniamo all’ordinanza e vedremo quale sarà il risultato in futuro!
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