Molto spesso,
pensando al repertorio del mio coro, che frequento ormai da 48 anni, mi domando
se quello che cantiamo possiamo definirlo "canto
popolare"; lo stesso vale per tutti i complessi corali cosiddetti "cori di montagna", ma anche "cori alpini" e "cori popolari". Poi mi
domando anche se le diverse classificazioni di appartenenza che troviamo nei
vari moduli di iscrizione a concorsi ed a rassegne siano da considerare giuste
o corrette. Ed allora nasce spontanea
una domanda: "Oggi cosa si può
definire canto popolare?"
La risposta non è
facile anche perché non tutti sono d'accordo. La mia idea è che il canto
popolare, almeno come espressione musicale di momenti d'amore, di dolore, di
gioia, di lavoro, ma anche di disperazione, di malinconia, di nostalgia e di
quant'altro, nata nel corso dei secoli e
tramandata oralmente, termina nella seconda meta del secolo scorso quando radio
e televisione imposero globalmente i loro canoni musicali che modificarono
radicalmente i gusti ed il modo di cantare -ma anche di non cantare- della
popolazione.
Prima di quel
periodo ci furono -per fortuna- dei ricercatori che, con pazienza, si
avvicinavano a chi, nei paesi di campagna e di montagna, ma anche nelle
periferie delle città e nei luoghi di lavoro all'aperto, cantava liberamente
motivi e testi che avevano appreso dalla generazione precedente. Il loro lavoro
consisteva nella trascrizione di testi e musica dei brani che ascoltavano;
questo accadeva -almeno per quanto riguarda l'Italia- nell'800 e nella prima
metà del '900. Dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto negli anni '50, con
l'avvento di strumenti per la registrazione audio, il modulo di ricerca si
modificò: al posto di quaderni e fogli musicali scritti a matita sul posto ci
furono metri e metri di nastro magnetico e, successivamente, di dischi
fonografici soprattutto quando nacquero i LP a 33 giri. Uno dei personaggi più
famosi in questo campo, che svolse questo tipo di lavoro anche in Italia, fu lo
statunitense Alan Lomax[1]
che nel
1954-55 percorse l'Italia in largo ed in lungo, con un registratore
"Magnecord", registrando voci di singoli o più cantori, con e senza
strumenti, nelle osterie, nelle aie e nei luoghi di lavoro. In Sicilia le canzoni dei salinai, quelle di
chi lavorava nelle tonnare, ma anche le storie dei "Paladini e di Rinaldo" cantate e
raccontate dai cantastorie. Non mancano i canti del periodo della mietitura in
diverse regioni, quelli dei pastori e boscaioli di montagna e di pianura
diversi anche se della stessa regione [2]
ed ancora quelli dei pescatori di pesce
spada. Da queste sue esperienze è nato un libro[3]
avvincente ed interessante.
Alan Lomax venne
anche nel Veneto, a Venezia (Pellestrina) ed a Chioggia dove registrò, e quindi
recuperò, fra l'altro due canti che sono
entrati anche nel repertorio del Coro Marmolada; e mi riferisco al "Canto dei battipali" ed "E mi me ne so 'ndao" si quali torneremo più avanti. Fu anche in
Friuli che descrive come "... la
regione della polifonia, dalle voci aperte, liquide, che vanno lontano, mescolate
in una dolce armonia e in una sequenza di accordi che sono entrambe
incomprensibili per gli italiani più a sud, e soprattutto è la regione delle
influenze culturali, linguistiche e musicali che giungono dall'Europa del nord. ...".
Un particolare che
mi ha colpito del lavoro di Lomax è
stato questo: arrivando nei diversi paesi si rivolgeva in primo luogo alle
autorità; queste gli proponevano cori o gruppi folcloristici organizzati e lui
li lasciava perdere recandosi, invece, nelle osterie dove offriva del vino, a
volte parecchio vino, che predisponeva le ugole. In Emilia, come riportato da
chi lo assisteva logisticamente, girava fra i vari paesi dove difficilmente
riusciva a trovare, nonostante il vino,
" ... canzoni che, localmente, avessero una radice. ...".Poi,
finalmente, nel paese di Campòlo,
ascolto una ninna nanna che lo soddisfò;
e lì, come riferisce la medesima persona, in un "... locale in condizioni disperate,ma utile perché vi servivano
certi vinacci toscani..." effettuò
la registrazione.
In poche parole
descrive l'Italia musicale così: "L'Italia è una terra dalle molte voci,
alcune aspre e dolenti, altre estremamente arcaiche: nessuna corrisponde alla
nostra idea della bella arte della canzone. Eppure in ogni regione sono giunti
fino al nostro tempo un sentimento antico, una cultura locale della
bellezza." . Ma questa sua idea non trovava riscontro presso altri
studiosi della materia. Ad esempio Massimo Mila[4]
sosteneva che il "canto popolare
italiano, ma anche europeo, si basa su un linguaggio armonico e tonale che, in
sostanza, non si scosta da quello dellamusica colta europea"; ed ancora,
sempre secondo lo stesso Mila, "...
i contadini italiani ed europei cantano melodie fondate sui sottoprodotti del
corale luterano e sui detriti delle arie dei cori d'opera italiana e francese,
cioè sui cardini stessi del linguaggio musicale romantico".
Lasciando queste
polemiche sorte fra musicologi, un confronto ed uno scontro che, comunque, arricchiscono il pensiero,
ritorno ai due canti che interessano il "Marmolada" e che, in effetti
rappresentano anche tutti gli altri canti cosiddetti popolari. Riscoperti e
registrati dalle voci degli ultimi battipali e dagli ultimi barcaioli che
remavano, Lomax affidò a Roberto Leydi[5] le registrazioni per curare l'edizione
discografica italiana. Questi, come riporta Gualtiero Bertelli[6]
nel suo sito[7], fece
avere a Luisa Ronchini[8]
le registrazioni effettuate da Lomax e
da Diego Carpitella[9]
a Chioggia e a Pellestrina, località lagunari, in modo che incominciò a
prendere corpo un piccolo, ma significativo, repertorio veneziano.
Da questo si deduce che Alan Lomax "recuperò" questi due canti e
Luisa Ronchini li divulgò con le sue interpretazioni. Ma già a questo momento l'interpretazione della
Ronchini non era più l'originale canto popolare, ma, appunto solo
un'interpretazione. Ed ancor più il genere popolare si allontana dalle
interpretazioni del Coro Marmolada che esegue i due brani armonizzati[10]
per coro a quattro voci virili.
In conclusione, il Coro Marmolada -ma anche gli altri cori con simili
caratteristiche- non fanno canto popolare, ma canto corale
"polifonico", nel senso etimologico del termine, i cui brani sono di
origine popolare.
Forse la dizione "cori d'ispirazione popolare", individuata già
anni fa, senz'altro è la più corretta.
[2] Riferendosi al Gargano ed alle zone costiere scrive:" ... è una terra di pastori e
boscaioli, boscaioli che vivono sulle montagne e cantano ruvidamente in coro, e
pastori sulle strette e assolate pianure costiere che cantano le note più alte
inassoli agonizzanti, come donne che urlano, e si accompagnano con la chitarra
battente."
[3] Alan Lomax "L'anno
più felice della mia vita - Un viaggio in Italia 1954 - 1955" (Il Saggiatore, 2008)
[5] Roberto Leydi (Ivrea, 21 febbraio 1928 – Milano, 15 febbraio 2003) è stato un etnomusicologo italiano
[7] http://www.gualtierobertelli.it/
[8]
http://digilander.libero.it/gianni61dgl/luisaronchini.htm
[9] Diego Carpitella (Reggio Calabria, 12 giugno 1924 – Roma, 7 agosto 1990) è stato un etnologo ed etnomusicologo italiano.
[10] "Il canto
dei battipali" è stato armonizzato da Giorgio Vacchi (Bologna, 2 maggio 1932 – 24 gennaio 2008, direttore di coro ed etnomusicologo italiano.) mentre "E
mi me ne so 'ndao", pur mantenendo il cantato della voce solista, è
stato elaborato da Lucio Finco (
http://www.coromarmolada.it/LUCIO-FINCO.htm ), già direttore del Coro
Marmolada, con un accompagnamento "muto" del coro.
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